Ogni pochi anni, ciclico e ricorrente come la maledizione di un romanzo di Stephen King, uno spettro torna a girare per l’Italia: lo spettro di Fabrizio Corona. Ogni pochi anni, puntualmente, questo minotauro un po’ divo e un po’ buffone torna a reclamare il suo debito di sangue nazionale, e ogni volta dà l’impressione di essere lì da un tempo immemorabile, simile a quelle creature mitologiche e sanguinarie che tengono in ostaggio una città e non finiscono mai di estinguere qualche loro remoto e oscuro debito, finendo per rappresentarne il cuore segreto, il punto più intimo e inconfessabile.

Questo è Fabrizio Corona per l’Italia, una sfinge tamarra e seducente, che allo scoccare della stagione minaccia il cittadino col suo enigma: un piccolo demone capace, ogni volta che riappare alla ribalta, di sottomettere un paese alla sua malia. Ci sarebbe da chiedersi in cosa consista il segreto del suo incantesimo. Non certo nelle sue scorribande penali – di pregiudicati in carriera il nostro paese non manca – o in un suo innegabile magnetismo da tronista maledetto o da bandito. No: il cuore della sua magia consiste in una formidabile capacità di trasformare la giustizia penale in Teatro.

Un prodotto del berlusconismo

È il prodotto più sofisticato e perverso del berlusconismo, Fabrizio Corona: non un vampiro e neanche uno sciacallo, non un ladro e neanche un parassita – piuttosto un regista, una macchina felliniana passata al lato oscuro, capace più di chiunque altro di trasformare la materia penosa e meschina delle colpe umane in un grande show nazionalpopolare. Quello che da vent’anni porta in giro è un allucinato circo di colpe e castighi, che si muove nel tempo invece che nello spazio.

Non si capisce Fabrizio Corona senza intendere quanto di arcaicamente religioso e predicatorio ci sia nelle sue gogne: non sono le sue storie ad essere emblematiche, ma è lui l’imbonitore capace di trasformarle in parabole, monumentali occasioni di riflessione collettiva.

Da vicende miserabili e penosamente comuni ha saputo trarre alcuni memorabili e spettacolari autodafé nazionali. Cosa sono, le sue ricorrenti emersioni nel dibattito pubblico, se non teatri itineranti dove lui riesce sempre a far succedere qualcosa di esemplare, didattico, inquisitorio? L’alter ego letterario di Corona non è il segaligno Mefistofele di Goethe o di Bulgakov, né il Frank Mackey di Magnolia: è piuttosto il Cipolla di Mario e il mago di Thomas Mann (che, non a caso, è ambientato in Italia, a Forte dei Marmi). Fabrizio Corona è il Savonarola che possiamo permetterci, e forse anche quello che ci meritiamo. 

Il rito sacrificale

Fin dall’inizio del suo successo, Fabrizio Corona ha inscenato meglio di chiunque altro il più antico di tutti i riti: quello sacrificale. Lo spettacolo che allestisce è sempre una variazione sullo stesso meccanismo: il processo della comunità contro i suoi colpevoli. Per questo, dicevo, la sua vicenda pubblica è sempre stata legata alla teatralizzazione di quello che si svolge nell’ombra delle procure. Il suo agone si svolge sempre nei pressi del tribunale, un po’ come le tragedie greche si svolgevano davanti al palazzo reale.

Quando non ha a che fare con la giustizia – direttamente o indirettamente – Corona non esiste. Sa bene – meglio di moltissimi teatranti – la parentela che corre fra il rito giudiziario e quello teatrale. Così, ogni volta che gliene si presenta l’occasione, Corona trasforma il grigio ingranaggio kafkiano della giustizia italiana in un un’indiavolata performance teatrale – volgare, morbosa, voyeuristica, d’accordo, ma non per questo meno catartica. Ogni paese ha la tragedia che merita.

Lo si è visto con Vallettopoli, quando venne indagato per estorsione ai danni di diversi vip, già allora quasi tutti calciatori: Gilardino, Adriano, Totti, Trezeguet. La ripresa video delle sue deposizioni in tribunale rimane tuttora uno dei più memorabili momenti teatrali della tv italiana, quando – inimicandosi tutti, ma incapace di sottrarsi al puro piacere del palco – alla giudice che gli chiede se può, per cortesia, smettere di usare la parola “cazzo”, Corona inizia a descrivere la stessa scena sostituendola con la parola “pene”, ripetendola con tale sottolineata insistenza clinica da trasformarla in un mantra più ridicolo e volgare di quanto lo fosse prima. Sta facendo il verso a Thomas Bernhard, e forse neanche lo sa. 

Sarà stato lì che ha capito che quei teatri così ben imbastiti potevano essere ancora più potenti quando era lui stesso a interpretarli. Con il suo proprio corpo, per dirla alla Pasolini. E allora ecco i tentativi di fuga all’estero, le dirette Instagram, le invettive universali, i soldi nel controsoffitto, le ospitate da Massimo Giletti con gli zigomi gonfi per il botox, la rissa sfiorata con Mughini, la performance alla Hermann Nitsch contro il Tribunale di Sorveglianza di Milano, quando si tagliò le braccia e si spalmò il sangue sulla faccia “per combattere l’ingiustizia”, in quello che sembrava il più triste e grottesco degli epiloghi ed era invece solo l’ennesima maschera del suo corteo, la più shakesperiana di tutte, il fantasma di Banquo che torna insanguinato dalla tomba a ricordare ai vivi le colpe e i pregressi, i sospesi e le pendenze. Si è fatto vittima, attore protagonista e narratore insieme, tutto in uno: un intero ciclo espiativo e mediatico da consumarsi tutto nello stesso individuo. Quando, in una delle ultime interviste, dice a Francesca Fagnani che prende cento pillole al giorno per sopravvivere, non è certo solo perché ha l’agenda piena. Serve molta forza per sostenere da solo un’intera filiera del simbolico.

L’unico sacerdote

E ora? Siamo di nuovo lì, con un intero teatro aperto intorno a tre avvisi di garanzia notificati a tre calciatori, nessuno dei quali prenderà probabilmente più di un anno di squalifica. Ma poco importa il peso effettivo del reato, quando, come fossimo nella Lettera scarlatta, a essere in gioco è la sua ardente rappresentazione morale: e allora ecco le liste di nomi, gli ammiccamenti, le rivelazioni, le dirette annunciate, gli insabbiamenti e le (presunte) censure. «Non sono un infame, non sono passato dalla parte dei buoni», dice Corona cercando di difendersi dall’ipotesi – in realtà più che probabile – che in questo suo ventennale gioco delle parti con le procure, stavolta sia in contatto con una fonte interna.
Poco importa, quando tre povericristi ventenni e milionari vengono sbattuti al centro dell’ennesimo circo sacrificale, conquistando nel dibattito pubblico italiano una centralità che neanche l’orrore che si sta consumando tra Israele e Gaza in queste settimane è riuscito a spostare ai margini.

Non è un caso che la celebrità di Corona sia nata nel mondo del calcio: niente più del calcio, infatti, rappresenta la specola attraverso cui – come in uno specchio magico o nel tronco di un albero – possiamo studiare le fosche evoluzioni del nostro capitalismo disfunzionale.
Vent’anni fa i giocatori sotto scacco di Corona scontavano la colpa di scopare troppo: adulterii, sveltine in discoteca, orge in barca al largo della Sardegna. Oggi, quasi vent’anni dopo, i calciatori sono accusati di aver scommesso illegalmente – colpa infinitamente più mesta, onanistica, miseramente priva di ogni illusione vitale.

Quello che passa tra lo scopare e lo scommettere è il diagramma di un’Italia che, nel giro di un ventennio, abbandonati i fantasmi di una golden age ludica ed eternamente adolescenziale, porta a compimento il teorema di un edonismo fosco, ultimamente triste, dove il denaro si spoglia di tutti i suoi travestimenti e appare per quel che è: un fine in sé, l’unico scopo di un lugubre ingranaggio a circuito chiuso, dove dei calciatori di vent’anni somigliano paurosamente a degli ex-ragionieri di settanta che si giocano la pensione alle macchinette.
Un’Italia che invecchiando migra dal mito cretino della Figa a quello, più triste e più crudele, della Slot Machine. Un teorema che, allora come oggi, viene svolto sempre dallo stesso narratore: il vero sacerdote di questa farsa nera è sempre lui.

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