Si è soliti dire – quando qualcunǝ risponde a una critica susseguente a un suo scritto contenente qualche “scivolone” di troppo – che la “toppa è peggio del buco”. Un esempio è quello che ha coinvolto Concita De Gregorio, la quale in un articolo apparso su Invece Concita (la Repubblica) del 04 agosto 2023 dal titolo Il valore di un selfie, ha utilizzato termini fuori luogo e offensivi per le persone con disabilità, pubblicando poi, a seguito delle tante polemiche che l’avevano investita, una replica (la toppa) che, nella percezione dei più, è apparsa peggiore del buco.

Nel caso specifico di Ernesto Galli della Loggia, la questione riguarda la pubblicazione di una recensione sul Corriere della Sera (13 gennaio 2024) nella quale ha “ragionato” su quello che ha definito come Il Mito dell’inclusione nella scuola italiana, distinguendosi per affermazioni sommarie («dislessici e disgrafici» sono cresciuti «a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie»), per il ricorso a termini desueti, medicalizzanti e abilisti e, soprattutto, per aver puntato il dito (in modo ambiguo) sul fatto che nelle aule scolastiche italiane «convivono regolarmente accanto ad allievi cosiddetti normali, anche ragazzi disabili gravi», così come «ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola di italiano».

Le tante critiche suscitate da questo intervento hanno spinto GdL a pubblicare il 21 gennaio, sempre sul Corriere, un nuovo articolo, questa volta più lungo e articolato, intitolato Il dibattito sulla scuola e la sfida dell’inclusione. Ora, nella fattispecie di questa replica, ci viene da dire che la risposta di Galli della Loggia a chi lo ha criticato non sia una toppa e che non sia peggio del buco, in quanto rappresenta ciò che è: il buco stesso.

Entriamo nel merito. Galli della Loggia replica alle critiche ricevute (anche dal sottoscritto), ammettendo di aver sbagliato nel racchiudere in poche righe un tema che, riconosce, essere complesso. Lo fa, ovviamente, dando del “prevenuto” a chi lo ha criticato, reo di aver “pensato male”, poiché non era nelle sue intenzioni «auspicare il ritorno alle classi differenziali di un tempo» ma «sollevare il velo di retorica che solitamente ricopre il principio d’inclusione così com’esso è praticato nella nostra scuola».

E così procede, avendo ora a disposizione uno spazio adeguato. Il problema, però, è che approfondendo il suo pensiero GdL dimostra sostanzialmente una cosa: di sapere poco o niente di quello di cui parla e di capirne ancora meno. A parte il fatto che continua a utilizzare un lessico medicalizzante (es: “affetto in vario grado”), colloca erroneamente allievǝ con dislessia e disgrafia nella fattispecie della disabilità (lieve, media o grave, precisa). Scrive: «Inclusione, per chi non lo sapesse, significa la presenza nella medesima classe, accanto agli altri allievi, dei cosiddetti allievi con Bes (sta per Bisogni educativi speciali): una vasta categoria che comprende i disabili con disabilità lieve media o grave: ad esempio, dai soggetti affetti in vario grado da dislessia o disgrafia medicalmente certificata a quelli con forme di pronunciata disabilità sensoriale o intellettiva; nonché gli allievi di origine straniera non parlanti la nostra lingua».

Per chi non lo sapesse. GdL in primis!

Ma andiamo oltre. Si sofferma ora sugli insegnanti di sostegno, asserendo quanto segue: «Nella maggioranza dei casi l’insegnante “di sostegno” non ha alcuna preparazione specifica se non alcune vaghe nozioni d’ordine generalissimo apprese in un corso annuale. Che tipo di “sostegno” potrà quindi assicurare se non quello genericissimo di una semplice presenza/assistenza? Ma non solo: sempre nella maggioranza dei casi (ma direi nella grande maggioranza dei casi) gli insegnanti “di sostegno” ambiscono in realtà a lasciare il loro ruolo per inserirsi nel ruolo normale d’insegnamento: ciò che una legge dà loro diritto di chiedere dopo un triennio».

Una visione svalutante e, mi sia concesso, offensiva di un profilo professionale che ha indubbiamente delle criticità (come in molti abbiamo da tempo evidenziato) ma che non merita di essere tratteggiato in questo modo.

A proposito di criticità e dell’intento di questo suo articolo chiarificatore, occorrerebbe che qualcuno spiegasse a GdL che, al netto della sua manifesta incompetenza su ciò di cui parla, tali temi sono attenzionati criticamente da parte di chi da anni li studia e li vive. Nessuno di noi è tanto ingenuo o ipocrita da affermare che l'inclusione, così come la stiamo attuando, sia priva di burocratizzazioni, scorciatoie, interpretazioni ambigue, difficoltà, ecc... 

Appartengo a una prospettiva di studi (Disability Studies) che da decenni ha approfondito tali aspetti, partecipando anche a confronti serrati e laici sulla questione, come nel volume curato da Vianello e Di Nuovo Quale scuola inclusiva in Italia? Oltre le posizioni ideologiche, 2015). Lo stesso Dario Ianes (tra i nomi più noti) ha messo il dito nella piaga, senza infingimenti (Gli Inclusio-Scettici, 2019, con G. Augello; Specialità e Normalità?, 2022, con H. Demo; Cosa sappiamo dell'Inclusione scolastica italiana. I contributi della ricerca, 2023, con S. Dell'Anna e R. Bellacicco). Io stesso, in diverse pubblicazioni, non mi sono astenuto dal formulare criticità, anche sulla formazione degli insegnanti.

Ma c'è una enorme differenza tra le nostre analisi – frutto di impegno sul campo, di studi e ricerche – e le affermazioni di Galli della Loggia.

Noi abbiamo mosso critiche partendo dall’assunto che l’inclusione sia un modello paradigmatico della società, un orizzonte di senso ineludibile (come ci ha insegnato Andrea Canevaro) e che la deistituzionalizzazione rappresenti una conquista e uno sfondo integratore (ancora Andrea) che va certamente migliorato (con l’impego quotidianamente di tuttǝ) ma che non può essere messa in discussione. La deistituzionalizzazione è come l’antifascismo. È un pilastro strutturale del nostro sistema sociale (quindi scolastico e formativo). L’inclusione, come l’antifascismo, è insito nella nostra Costituzione.

Galli della Loggia, diversamente, oltre a dire cose inesatte anela a un modello che contempla, al di là di quello che dice a sua difesa, una qualche forma di sistema separato. Scrive in tal senso: «È proprio sicuro che ad esempio, perlomeno nei casi gravi di disabilità intellettiva, di disabilità motoria, piuttosto che essere immersi in un ambiente totalmente altro assistiti da un incompetente non gioverebbe di più l’inserimento in un’istituzione capace di prendersi cura di simili casi in modo più appropriato e scientificamente orientato? [...] E non sarebbe allora meglio che i bambini di origine straniera prima di fare ingresso in una qualunque classe di una nostra scuola seguissero ad esempio per tre mesi un corso intensivo d’italiano? Per quale assurda ragione porre un simile problema significa apparire quasi un fautore dell’apartheid? Perché, insomma, in Italia il discorso sull’istruzione suscita in un modo così spasmodico un immediato riflesso di faziosità, di intolleranza, di cieca convinzione nell’assoluta bontà delle proprie ragioni e nel carattere demoniaco di quelle altrui? Perché ogni tanto non pensiamo ad esempio che tutte le regole a proposito di alunni disabili e stranieri di cui si è detto finora sono applicate solo in Italia, Spagna e Grecia ma che in tutti gli altri Paesi dell’Unione le regole sono diverse, spesso molto diverse dalle nostre? Come mai? Sono tutti reazionari?».

Ecco, alla luce di questa risposta, in conclusione mi sembra di poter affermare che Galli della Loggia nell'aver articolato meglio il suo pensiero – avendo maggiore spazio a disposizione – non abbia fatto altro che confermare quello che avevamo già compreso.

Il pensiero di GdL è chiaro, stia sereno, non ci siamo confusi.

Così come è chiaro (e grazie a GdL moltǝ sono uscitǝ allo scoperto) che ha diversǝ estimatori/ici nel mondo della scuola. Qualcunǝ di questǝ ha addirittura scritto che è stato “fascista” il modo con cui molte/i di noi hanno reagito al suo primo scritto.

C’è da restare sorpresǝ? Direi di no. A chi pensava di averle viste/sentite tutte, risulterà palese che non è così.

Mi sbaglierò, ma credo, anzi, che ne vedremo e ne sentiremo ancora di “migliori”. In effetti, parafrasando Federico Zampaglione e i Tiromancino temo che “il peggio non sia tranquillo”.

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