Le Conferenze delle Parti (Cop), sono gli incontri annuali organizzati dalle Nazioni Unite per concordare efficaci politiche di contrasto al riscaldamento globale. A novembre 2021 in Scozia si terrà la 26esima edizione, presieduta congiuntamente da Italia e Regno Unito. La Cop di quest’anno è particolarmente importante per due motivi: è la prima dallo scoppio della pandemia ed è chiamata ad aggiornare gli Accordi di Parigi, ovvero la più avanzata intesa mai raggiunta in tema di lotta alla crisi climatica. In questo spazio bisettimanale ci proponiamo di raccontare le notizie, i meccanismi, i retroscena dei negoziati per il clima. Siamo arrivati al settimo numero, a questo link trovi i precedenti.

I trattati sul clima

La domanda «ma gli stati sono obbligati?» riecheggia ogni volta che i negoziati internazionali sul clima si avvicinano e ci si interroga sulla reale efficacia degli accordi a obbligare gli stati ad agire contro la crisi climatica. Il più famoso e importante dei trattati è sicuramente l’Accordo di Parigi, che ripercorriamo brevemente per capirne i reali vincoli giuridici, e come mai nell’ultimo periodo vi sia stato un capace uso proprio di questi trattati in campo giudiziario per obbligare gli stati a muoversi più rapidamente.

L’Accordo di Parigi (o Accordi di Parigi), adottato il 12 dicembre 2015 ed entrato in vigore il 4 novembre 2016, è un trattato internazionale sul clima con carattere legalmente vincolante.

Il suo scopo principale è quello di limitare l’emissione dei gas climalteranti da parte degli stati - anche se che recentemente non è stato applicato solo ad essi . L’obiettivo finale è contenere l’aumento della temperatura globale «ben al di sotto dei 2°C» con l’intento di proseguire «l'azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C». Da questo scarto di 0.5°C dipende la sopravvivenza di interi stati insulari, che con l’aumento della temperatura e il conseguente innalzamento del livello dei mari, verranno sommersi in buona parte.

Per conseguire tale obiettivo climatico, l’Accordo stabilisce che ogni stato debba raggiungere il prima possibile il proprio picco di emissioni e da lì “scendere” verso la neutralità climatica (net-zero) entro il 2050.

Ma è obbligatorio?

A vedere gli impegni spesso insufficienti, è abbastanza comune quanto errata l’opinione che il trattato non sia vincolante, quando in realtà è giuridicamente vincolante per gli stati che lo hanno ratificato.

Il vero problema sta nel fatto che non vi siano strumenti per punire chi non adempie agli obblighi, ma tutto si basa - de facto - sul soft power di ogni nazione. Ogni cinque anni gli stati devono presentare e commentare gli NDCs - ovvero i contributi determinati a livello nazionale del proprio impegno per contrastare l’aumento di temperatura globale - e il raggiungimento degli obiettivi a tal riguardo è vincolante politicamente. Ad essere giuridicamente vincolanti sono l’attuazione delle misure nazionali e la presentazione del percorso di raggiungimento degli obiettivi (che devono essere chiari, quantificabili e ambiziosi).

I paesi in via di Sviluppo

I paesi in via di sviluppo sono aiutati grazie al contributo del Green Climate Fund, il fondo monetario  più grande al mondo a sostegno di progetti e politiche climatiche nei paesi meno sviluppati. L’obiettivo è raccogliere cento miliardi di dollari all’anno dal 2020 al 2050. Ma si fa sempre una gran fatica a recuperare i fondi, e non si sa mai chi li abbia messi. Ad esempio, una delle criticità segnalate riguardo al Gcf è che i finanziamenti derivano dal settore pubblico e privato, ma nel 2015 il Giappone, la Cina e l’Arabia Saudita si sono opposti al divieto dei finanziamenti a progetti al mondo del fossile (ad esempio per la costruzione di centrali a carbone, trivellazioni ed esplorazioni).

Alcune nazioni come Germania, Canada e Regno Unito hanno appena aumentato i propri impegni, ma non l’Italia.

La svolta in tribunale

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una vero e proprio punto di svolta per quanto riguarda l’uso del potere giudiziario anche in ambito climatico.

A febbraio, la sentenza che condannava lo stato francese, accusato da quattro associazioni di inazione climatica e di non rispettare - ironia della sorte - gli Accordi di Parigi. Il tribunale aveva riconosciuto nello stato la responsabilità degli impegni assunti, e non rispettati.

Ad aprile, la denuncia da parte di diverse Ong per il clima ha portato un’altra storica sentenza della Corte Costituzionale tedesca, obbligando la Germania - nel giro di poche settimane - a rivedere i target climatici al 2030, alzandoli al meno 65 per cento.

Ma prima ancora di questi, il caso che più ha fatto scuola è stato Urgenda, nei Paesi Bassi, dove ben 886 cittadini hanno denunciato lo stato, e la Corte dell’Aja aveva deciso nel 2015 che serviva un impegno più proficuo. Perfino la Corte Suprema dei Paesi Bassi ha ribadito il concetto a seguito dell’appello dello stato, e - nel dicembre 2019 - ha emesso la sentenza definitiva che obbliga lo stato a ridurre immediatamente le emissioni al fine di rispettare i gli obblighi sui diritti umani.

Anche il Belgio condannato

Ora è la volta del Belgio: è notizia delle ultime ore che Klimaatzaak ha vinto la causa contro la monarchia bilingue nel cuore dell’Europa.

L’organizzazione non profit belga aveva intentato causa nel 2014 - una vita fa, in termini di azione climatica - citando lo stato per il mancato rispetto dei diritti umani.

Quindi, infine, nonostante le criticità nell’applicazione diretta del trattato climatico più famoso al mondo, la giurisprudenza si sta accorgendo della cosa, e questi casi forniscono precedenti sempre più solidi - uniti alle più universali dichiarazioni dei diritti - a disposizione di chiunque voglia salvare il mondo partendo da una sbarra di tribunale.

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