Le Conferenze delle Parti (Cop), sono gli incontri annuali organizzati dalle Nazioni Unite per concordare efficaci politiche di contrasto al riscaldamento globale. A novembre 2021 in Scozia si terrà la ventiseiesima edizione, presieduta congiuntamente da Italia e Regno Unito. La Cop di quest’anno è particolarmente importante per due motivi: è la prima dallo scoppio della pandemia ed è chiamata ad aggiornare gli Accordi di Parigi, ovvero la più avanzata intesa mai raggiunta in tema di lotta alla crisi climatica. In questo spazio bisettimanale ci proponiamo di raccontare le notizie, i meccanismi, i retroscena dei negoziati per il clima. Siamo arrivati al sesto numero, a questo link trovi i precedenti.

Il carbone è passato di moda

Il rischio che il carbone a breve debba andare in analisi per sindrome dell'abbandono si fa sempre più concreto. Tra i combustibili fossili, il carbon fossile è quello su cui devono convergere immediatamente gli sforzi mondiali. Anche l'Agenzia Internazionale dell'Energia nel nuovo Net Zero Report sostiene il phase-out mondiale dal carbone entro il 2030. E che non debbano essere previsti nuovi investimenti nei combustibili fossili in generale.

In quest'ottica si inserisce la dichiarazione congiunta dello scorso 21 maggio dei paesi del G7 – Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti – nella quale viene sancito di mettere in campo azioni concrete per porre fine entro il 2021 a ogni tipo di finanziamento estero al carbone. Per i rimanenti investimenti, l'impegno è rimanere solo su quelli compatibili con un percorso sicuro che ci mantenga sotto il grado e mezzo di aumento della temperatura.

Gli analisti di Ember ritengono un buon passo in avanti la prima misura, ma ancora insufficienti gli impegni successivi, non sufficienti a terminare la produzione da carbone entro il 2030 e decarbonizzare il settore energetico al 2035.

Le multinazionali del fossile

Meno di un mese la storica sentenza della Corte Costituzionale tedesca che ha costretto il governo di Berlino a rivedere i propri target di riduzione delle emissioni. Ora altri due tribunali si sono pronunciati in modo del tutto inaspettato su temi legati alla crisi climatica.

Nei Paesi Bassi il tribunale distrettuale dell’Aja ha emesso una sentenza nei confronti della multinazionale petrolifera Shell - che ha sede, appunto, all’Aja - basata sull'obbligo legale di rispettare gli Accordi di Parigi sul clima, ratificati dal piccolo paese nordico. La corte ha imposto al gruppo di ridurre le proprie emissioni del quarantacinque per cento rispetto al 2019.

Un taglio drastico, considerando che più la data di riferimento - il 2019 in questo caso - è vicina a quella attuale, maggiore sarà l’impatto della riduzione richiesta. Gli avvocati, come in loro diritto, hanno annunciato che presenteranno ricorso e la sentenza non può considerarsi definitiva, seppur questo non sospenda la necessità di ottemperare alla decisione presa.

Dall’altra parte del mondo, in Australia, abbiamo un’altra “sentenza climatica”, questa volta da parte della Corte Federale Australiana, a seguito di un ricorso di alcuni giovani che hanno accusato il ministero dell’Ambiente di negligenza. Oggetto del contendere è la richiesta di espansione di una miniera di carbone avanzata da una compagnia estrattiva.

Il giudice non ha bloccato l’espansione, ma ha comunque riconosciuto per la prima volta l’obbligo di tutela delle generazioni future. Una novità assoluta per il paese oceanico. La decisione definitiva sulla miniera è in ogni caso rinviata, e sarà interessante vedere se il principio appena affermato si applicherà già al caso in questione.

Gli “Ndc”, ovvero i contributi nazionali

Gli Ndc, acronimo di Nationally Determined Contribution, sono i piani di riduzione delle emissioni che ogni Paese prepara nell’ambito delle Cop. Istituiti nel 2015 dagli Accordi di Parigi, sono aggiornati ogni cinque anni e assolutamente volontari: ogni stato decide in totale autonomia quali impegni prendere.

Il più significativo aggiornamento di un Ndc è arrivato il 21 aprile, quando gli Stati Uniti d’America - appena rientrati negli Accordi di Parigi - hanno annunciato l’intenzione di ridurre le proprie emissioni del cinquanta per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005. Da allora anche Georgia, Armenia, Laos, Honduras, Nigeria, Angola e Sudan hanno inviato versioni aggiornate dei propri piani.

Già struttura e lunghezza dei documenti ci danno l’idea dell’impegno profuso dal singolo stato nella stesura. Gli Ndc dell’Angola occupano novantacinque pagine, quelli della Nigeria solo cinque. Gli Ndc europei parlano di riduzione prevista delle emissioni, mentre quelli indiani si limitano a indicare obiettivi relativi alla crescita delle rinnovabili e la riforestazione.

Persino la grafica è significativa: molti dei documenti più lunghi e complessi sono accompagnati da un'impaginazione impeccabile, mentre i testi più approssimativi sono di solito semplici documenti word, talvolta scannerizzati in modo, diciamo, artigianale.

Dal 2009 i negoziati Onu per il clima si sviluppano secondo un approccio di tipo bottom-up, dal basso verso l’alto: si parte dagli impegni presi in autonomia dai singoli stati, e su quelli si tratta per raggiungere obiettivi più ambiziosi - o più convenienti - per ogni parte in gioco. Questa strategia negoziale ha permesso di superare lo stallo del primo decennio del 2000 - quello che portò alla disastrosa Cop15 di Copenaghen, una delle edizioni meno riuscite di sempre - ma ha anche reso più difficile raggiungere i radicali impegni auspicati dalla comunità scientifica. «La somma dei tagli (delle emissioni N.d.R) promessi da ogni delegazione non ha mai raggiunto la cifra richiesta dagli esperti» ha detto il climatologo Antonello Pasini in un’intervista di qualche mese fa.

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