In questi giorni, a Roma, stiamo affrontando una discussione impegnativa in cui ciascuno deve mettere del suo, in un’ottica propositiva e costruttiva, per liberare la città da un problema che si trascina da troppo tempo: quello dei rifiuti.

È nell’economia circolare la sfida per una città pulita, salubre e in grado di creare posti di lavoro. Puntando sul risanamento di Ama con nuove assunzioni e sul miglioramento dei mezzi e delle strutture, sul coinvolgimento delle istituzioni di prossimità municipali nel favorire la dialettica fra le diverse visioni.  Certo, è una sfida impegnativa da giocare con forza, serietà e con l’autorevolezza di una politica che si assuma la responsabilità di dare una prospettiva concreta alla transizione ecologica, in grado di alimentare l’economia della pace per far crescere la forza della democrazia.

Un inceneritore che a regime dovrebbe bruciare 600.000 tonnellate annue di materiali va verso una direzione diversa e non servirà alla gestione circolare dei rifiuti, finendo per rappresentare una pesante ipoteca sulla chiusura del ciclo e su ogni strategia di riduzione della produzione.

Per alimentarlo, senza avere prima inciso sulla filiera, ci allontaneremo dalla raccolta differenziata di qualità, dal riuso e dal riciclo dei materiali, da un diverso modello di uso e consumo dei beni. In breve ci allontaneremo da una cultura che a sinistra coltiviamo da anni.

Per costruirlo un territorio verrà invaso da un cantiere di grandissima entità con tempi incerti, visto che la difficoltà nel reperire l’acciaio ha già rallentato la produzione automobilistica, e dai costi variabili  a causa della guerra che incide sull’andamento dei prezzi delle materie prime. La popolazione interessata subirà una decisione foriera di inquinamento e di rischi concreti per la salute e per il terreno. Una mossa repentina che riporta il calendario indietro, senza tenere conto degli accesi dibattiti e delle lotte diffuse dai comitati locali del Lazio sul tema della gestione dei rifiuti.

Un’invasione in terra di pace in tempo di guerra mentre assistiamo allo scontro fra ciò che è rinnovabile e ciò che è fossile, come ci hanno ricordato le giovani generazioni nelle piazze per chiedere scelte condivise e non decisioni già prese sulla base di poteri commissariali.

Dire che un inceneritore cosi fatto possa provocare un impatto ambientale nullo è fuorviante tanto quanto pensare che le volontà e i legittimi dubbi delle comunità locali si possano nascondere. Pagheremo nel lungo periodo in termini di emissioni, di traffico veicolare pesante, di collocazione in discariche speciali delle ceneri altamente tossiche (il 25/30% del materiale incenerito), di mancanza di pianificazione e confronto, di sfiducia verso le istituzioni che oggi noi rappresentiamo.

Mentre il Pnrr e l’Europa si candidano a fare delle città i luoghi dove sperimentare politiche di contrasto al cambiamento climatico, Roma rischia di imboccare una strada vecchia, che, per quanto tecnologicamente di ultima generazione, riduce un tema complesso e di grande potenzialità ad un “affare” rivolto al passato e basato su un’idea di sviluppo illimitato, che non tiene conto della finitezza delle risorse disponibili. 

È sul piano piano pratico che la proposta appare contraddittoria e inadeguata, oltre che inutile per il Giubileo, visti i tempi di realizzazione che superano i 3 anni. Secondo i dati Ispra, la Capitale produce 1.700.000 tonnellate annue di rifiuti, 600.000 tonnellate sarebbero quindi l’enorme residuo non riciclabile selezionato come combustibile. 

Mancato l’obiettivo Ue della raccolta differenziata al 65%, un impianto di queste dimensioni oggi sembra una strada semplice da imboccare per non impegnarsi in modo capillare e diffuso per un cambio di passo economico e culturale, una veloce retromarcia che rischia di investire chi da anni si impegna, a anche nel piccolo, per la riduzione della produzione dei rifiuti, dell’utilizzo di imballaggi e degli sprechi.

Ciò detto, bisogna entrare nel merito e aprire una discussione con la città a partire dai territori interessati, usando tutti gli strumenti che abbiamo a disposizioni come assemblee, consultazioni e referendum democratici, cosi nella risoluzione di un problema tracceremo la nostra  prospettiva di futuro.

Serve il coraggio di dire che la discussione sulla chiusura del ciclo è possibile solo ricorrendo ad impianti con proprietà pubblica, di dimensioni ridotte rispetto a quanto proposto e solo come esito di un piano che punta, in primis, al porta a porta a tutte le utenze domestiche, ad una differenziata molto spinta, alla riduzione della produzione a partire dagli imballaggi e alla diffusione dei prodotti sfusi, alla tariffa puntuale, a nuove isole ecologiche, biodigestori di dimensioni ridotte per l’organico e piccolo impianti per il riciclaggio dei materiali.

Questi obiettivi sembravano essere parte delle scelte dell’amministrazione capitolina, oggi invece verrebbero spazzati via. Noi vogliamo rimetterli al centro per una sfida che viaggia oltre il Grande Raccordo Anulare senza scorciatoie, una strada aperta e diffusa, per la politica che verrà.

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