Le campagne elettorali per queste elezioni amministrative non brillano né per idee né per entusiasmo, per cui le notizie che arrivano dalle città coinvolte sembrano uscite da bollettini degli anni sessanta del secolo scorso.

Ieri La Libertà, il quotidiano di Piacenza, riportava che la Lega ai comizi politici per le elezioni comunali ha distribuito forme di Grana Padano con l’adesivo del partito appiccicato sull’etichetta, come una cronaca da Achille Lauro che regalava ai potenziali elettori una scarpa con la promessa dell’altra.

Il consorzio del Grana Padano non l’ha presa bene: “Ci dissociamo dall'utilizzo del nostro formaggio per fare propaganda politica, si tratta di un fatto sgradevole. Il formaggio non è né di destra né di sinistra. È di tutti”.

La dichiarazione d’ufficio era d’obbligo, ma in un certo senso lascia il tempo che trova. La presenza e l’uso del cibo per la propaganda politica negli ultimi anni è aumentata esponenzialmente, anche quando in modo non sguaiato come quello della Lega a Piacenza.

Siamo più abituati alle immagini dei politici italiani (anche i leader, da Luigi Di Maio a Matteo Salvini ovviamente) con pizzoccheri, tielle di Gaeta, arancine, forme di parmigiano giganti, salumi tipici, che alle pose ufficiali. Che senso possiamo dargli?

La relazione tra cibo e politica è chiaramente millenaria. I libri dello storico Massimo Montanari ricostruiscono in modo mirabile per esempio come l’invenzione delle comunità politiche sia spesso il frutto di un immaginario legato alla cucina.

Se, infatti, le retoriche e i riferimenti dotti alla cultura nazionale alta possono essere pienamente capiti e fatti propri solo da chi ha un sufficiente livello di istruzione, il discorso sul cibo si presta a colpire intimamente l'immaginario anche dei ceti e gruppi sociali più lontani dalle pratiche discorsive (e mitopoietiche) complesse e spesso non semplici del nazionalismo “dall’alto”.

Permette di far sentire la nazione partendo da quell’astrazione semplice ma di effetto che è la vita quotidiana di tutti coloro che ad essa appartengono”). Fin qui niente di nuovo, quindi.

Quello che è cambiato negli anni della fine della seconda repubblica che corrispondono alla postpolitica è la riduzione delle ideologie politiche a valori identitari minimali, in modo non dissimile da quello che è successo al cibo, come se la politicodiversità e la biodiversità fossero progressivamente sparite nel discorso pubblico a favore di retoriche di tradizione, autenticità, appartenenza che compongono un’ideologia cibo-politica che potremmo definire il tipicismo, un mix tra sovranismo e neo-nazionalismo.

Si potrebbero fare molti esempi, citando spot dei prodotti alimentari sembrano parodie di pubblicità del Ventennio: «Sulle nostre tavole», «Solo dalle terre italiane»… è tutto un florilegio di appartenenze e sensi patriottici.

Cirio, per dire, ha di fatto sostituito il famoso claim "Come natura crea, Cirio conserva” con “Cirio, cuore italiano”, e ha retrodatato, inventandosi una tradizione inesistente, la data di fondazione a prima dell’unità d’Italia.

In questo il logo del Grana Padano e il simbolo della Lega più che relazionarsi o sovrapporsi tra loro, si annullano.

Non dicono nient’altro che il discorso politico o quello culinario si confondono in una serie di parole plastiche il cui significato è sempre più vaporoso: territorio, bontà, buon senso, gusto, tipicità appunto.

Aspettando le elezioni amministrative con più noia di quella con cui si aspetta un weekend con la sagra di paese.  

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