L'angosciante, ingiustificata ed estenuante reiterazione del carcere per Patrick Zaki racconta, senza mezzi termini, lo stato delle cose in Egitto. In realtà nulla di molto differente da quel che la vicenda terribile della vita spezzata di Regeni ha e aveva già dimostrato.

L'involuzione autoritaria del Paese è in atto. Ad essa non si accompagna alcuna novità positiva. Decine di migliaia di persone sono imprigionate. Le loro colpe riguardano l'attivismo politico e sociale, le lotte per i diritti civili oppure l'orientamento sessuale.

Spesso, è presumibile, sono poi detenute per una ragione semplice. Il regime è, come molti regimi antidemocratici, paranoico. Così può perfino accadere che non reprima solo chi lo avversa con la libera espressione della propria opinione ma, pure, chi è semplicemente circondato dal sospetto di poterlo fare.

Quella di Zaki è una storia tra le tante ed è segnata da un particolare in più: si tratta di un ragazzo impegnato in un percorso universitario in Europa. La stessa Europa dove gli stati nazionali hanno assunto la decisione, nei fatti, di mantenere un profilo basso, in ragione, probabilmente, dell'interesse a salvaguardare il legame con Al.Sisi, un partner evidentemente ritenuto utile sulla complessissima scacchiera della geopolitica. I risultati di questa scelta, sul punto specifico dei diritti umani, sono oggettivamente deludenti. Il governo italiano più di tutti è chiamato a prenderne atto.

Dal Parlamento europeo, votando il 18 dicembre una risoluzione molto netta, abbiamo indicato una strada diversa. Quella dell'inasprimento delle relazioni diplomatiche e dell'interruzione del commercio di armi che vede oggi proprio Italia ed Egitto andare a braccetto. Invece di spendere parole di circostanza varrebbe la pena provare ad assumersi la responsabilità di scelte simili. Essere più coraggiosi e battersi così a viso aperto per la liberazione di Zaki.

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