Nella seduta dell’11 novembre, il Consiglio dei ministri ha licenziato il decreto legge Aiuti Quater, subito ribattezzato “Decreto Energia”.

Nella conferenza stampa seguita al consiglio dei Ministri, le presidente Giorgia Meloni ha reso noti gli obiettivi della misura che secondo le bozze si situerebbe all’articolo 4: rendere disponibili 2 miliardi di metri cubi di gas per agevolare le aziende gasivore italiane, diminuire la dipendenza energetica dell’Italia dall’estero e mettere in sicurezza il tessuto produttivo italiano.

Si tratta di affermazioni pretenziose considerato che, secondo l’autorità per l’energia, Arera, il fabbisogno delle sole imprese del settore industria e commercio, al netto della generazione di elettricità e calore, nel 2021 è stato di 19,5 miliardi di mc e che i nuovi 2 miliardi di mc di gas potranno rimpiazzare appena il 2,9 per cento delle importazioni nette di gas dell’Italia.

L’insieme delle misure varate dall’esecutivo dovrebbe consentire di ottenere 15 miliardi di metri cubi di gas nei prossimi 10 anni mentre per porre fine alle importazioni di gas avremmo necessità ogni anno di 74 miliardi di mc di gas “nazionale” (dato 2021) e cioè in un colpo solo di tutte le riserve di gas, non rinnovabili, su cui possiamo contare.

La misura tenta di porre rimedio a un tonfo annunciato; scimmiotta il fallimentare percorso intrapreso dal duo Draghi-Cingolani con l’articolo 16 del decreto-legge 17/2022 che confidava che Eni, Eni Mediterranea Idrocarburi, Energean Italy e Gas Plus Italiana, titolari di 46 concessioni di estrazione di gas nel mare territoriale e nella piattaforma continentale in aree non idonee secondo il Pitesai, si facessero avanti per cedere allo stato a prezzi calmierati, per il tramite del Gse, gas da destinare alle imprese gasivore. Come raccontato su Domani, l’invito del Gse rivolto ai concessionari è caduto nel vuoto.

Meloni è quindi tornata alla carica mettendo sul piatto tutta una serie di facilitazioni: tra tutte, la deroga al divieto di nuove attività di ricerca e di estrazione di gas entro le 12 miglia marine dalle linee di costa ed ulteriori deroghe ai vincoli del Pitesai contro cui, guarda caso, hanno proposto ricorso al Tar gli azionisti del giacimento lucano Tempa Rossa, Totalenergies, Shell Italia e Mitsui.

Molto controversa, fino a produrre profonde lacerazioni nel centro-destra, è la misura che consente il rilascio di concessioni di coltivazione di idrocarburi nell’Alto Adriatico, al largo del Delta del Po ed ai margini del Golfo di Venezia, a una distanza dalle linee di costa superiore a 9 miglia e con un potenziale minerario di gas superiore a 500 milioni di metri cubi.

Tornando alla conferenza stampa dell’11 novembre, Meloni ha ostentato un «abbiamo dato risposta immediata a famiglie ed imprese», ma suona come uno slogan ingannevole e privo di contenuti.

Il “Decreto Energia” ha il fiato corto, anzi cortissimo: non incide sul meccanismo di formazione del prezzo del gas all’ingrosso e non favorisce il cambiamento del mix energetico delle fonti di generazione termica oggi fortemente sbilanciato a favore del gas.

A chi vanno i soldi

Il “Decreto Energia” stanzia 9,1 miliardi di euro per finanziare rimborsi, crediti d’imposta, esenzioni, ma non affronta i veri nodi dello shock dei prezzi del gas e rafforza la rendita di pochi operatori che hanno tratto enormi fortune dal caro-energia a detrimento di famiglie ed imprese.

Eni, ad esempio, nei primi 9 mesi del 2022 ha realizzato utili al lordo delle imposte pari a 21,6 miliardi di euro, il doppio di tutto il 2021. Secondo l’amministratore delegato Claudio Descalzi «i numeri sono frutto della costante attenzione all’efficienza e al controllo dei costi». Ma non basta a spiegare i profitti altissimi.

Secondo la Fondazione David Hume, l’Eni importa il 48,4 per cento del gas naturale importato in Italia in un anno, e si approvvigiona di gas per il 61 per cento del suo fabbisogno nazionale tramite contratti pluriennali (fino a 30 anni).

Le risorse messe a disposizione da questo come dal precedente governo per sostenere famiglie e imprese finiscono in realtà per generare ulteriori sussidi alle fonti fossili, creando nuovo debito e rallentando la transizione energetica.

Nel frattempo non si hanno notizie della possibile data di approvazione delle norme attuative sulle comunità energetiche rinnovabili, e delle linee-guida per identificare le aree idonee su cui installare impianti fotovoltaici, che consentirebbero la realizzazione di almeno 10 GW/anno di nuova generazione elettrica rendendo l’Italia meno dipendente dalle importazioni di gas.

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