Venerdì iniziano i campionati europei di calcio, manca invece un anno e mezzo all'inizio del più importante torneo del pianeta, quello a cui tutti noi leghiamo ricordi ed esperienze di vita, i Mondiali. La vigilia dell'edizione 2022 non porterà con sé solo l'attesa per l'evento sportivo, ma anche implicazioni e interrogativi su un piano etico.

Si può giocare a calcio negli stadi costruiti al prezzo della libertà e della privazione dei diritti umani? Si può scendere in campo in un paese che non applica il benché minimo controllo sulle condizioni di lavoro delle sue infrastrutture sportive? Si possono disputare i Mondiali in Qatar? Secondo me, no.

Secondo un’importante inchiesta del Guardian, realizzata nonostante i tentativi del Governo qatariota di insabbiare la vicenda, sono più di 6.500 i lavoratori morti nei lavori per la preparazione dei mondiali in Qatar. Molti di loro sono immigrati da India, Bangladesh, Sri Lanka e Nepal, ridotti in condizioni di schiavitù e costretti a condizioni di lavoro disumane, con turni massacranti, alloggi fatiscenti, privazione d’acqua a 50 gradi e frequenti punizioni corporali.

Il percorso migratorio di questi nuovi schiavi è drammatico: come testimonia Amnesty International i lavoratori pagano caporali senza scrupoli nel proprio paese di origine per ottenere lavoro e viaggio. Una volta giunti in Qatar, fortemente indebitati e privati dei documenti, non riescono a lasciare il paese e sono costretti ad accettare ogni tipo di abuso. La condizione dei lavoratori in Qatar è da anni al centro di inchieste giornalistiche e le testimonianze di coloro che sono riusciti a sottrarsi agli aguzzini sono agghiaccianti.

La narrazione ufficiale minimizza la questione e racconta un mondiale di meraviglie e splendenti impianti sportivi tecnologici, come il Khalifa Stadium, pronto per la vetrina più seguita del calcio internazionale. Nel 2022, il Mondiale della vergogna, come lo chiama Amnesty, sarà un enorme spot per il Qatar e il suo modello sociale e finanziario. A quanto pare, insomma, anche il Qatar avrà il suo “rinascimento”.

Per fortuna, non tutti hanno deciso di attendere in silenzio. 

Una piccola squadra norvegese, il Tromsø, lo scorso febbraio ha scritto una cosa tanto semplice quanto necessaria: «Non possiamo voltarci dall'altra parte». L'hanno seguita diverse squadre della massima serie, tra cui la squadra più titolata del paese, il Rosenborg. Praticamente la nostra Juventus. La richiesta alla federazione norvegese è quella di boicottare i Mondiali in Qatar, anche se per la prima volta dopo 22 anni la nazionale scandinava sembra avere la concreta possibilità di qualificarsi. Un appello a cui sta rispondendo positivamente il popolo norvegese: secondo France Football il 55 per cento dei cittadini è favorevole al boicottaggio dei Mondiali.

La mobilitazione non ha lasciato insensibile la nazionale che, nell'ultimo turno di qualificazione contro Gibilterra, è scesa in campo con una maglia che recava scritto «Diritti umani, dentro e fuori dal campo». L'hanno imitata con iniziative simili le nazionali di Belgio, Olanda e Germania che non hanno parlato espressamente di boicottaggio, per evitare sanzioni della Fifa che vieta espressioni su tematiche politiche, ma si sono mostrate sensibili al tema dei diritti umani.

Il prossimo 20 giugno la federazione norvegese voterà una mozione che propone concretamente il proprio boicottaggio ai Mondiali in Qatar del 2022. Molto spesso nella storia lo sport si è fatto portatore e strumento di messaggi che hanno cambiato lo stato delle cose: il boicottaggio da parte di una o più nazionali potrebbe essere uno di questi.

Stupisce, ma neanche troppo, l'assoluto silenzio e l'apparente indifferenza del multimiliardario mondo del pallone nostrano, saldamente girato dall'altra parte. Non porre il tema dei diritti umani e guardare altrove, alla vigilia dei Mondiali in Qatar, è vergognoso. È possibile che non ci si interroghi sull'opportunità di giocare partite di calcio in stadi e impianti sportivi costruiti sul sangue di uomini trattati come schiavi?

Sarebbe bello che dal privilegiato punto di osservazione di chi fa il calciatore o l’allenatore ci fosse un sussulto, semplice e a suo modo rivoluzionario. Sarebbe bello che qualcuno avesse il coraggio di quella piccola squadra norvegese e dicesse una cosa che sembra banale ma è necessaria: non si gioca a calcio sotto i riflettori di tutto il mondo in un Paese che non rispetta i diritti umani. 

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