Il summit sociale europeo di Porto ha aperto un dibattito che rappresenta per l’Europa un’opportunità strategica: far nascere, dopo il Next generation EU, quell’Unione sociale, del lavoro e dei diritti che è sempre stato un obiettivo, ma che finora è mancato.

Se l’approvazione del Recovery Fund è stata un evento storico, perché per la prima volta l’Unione accettava la condivisione del debito, realizzare forme di welfare europeo permanenti renderebbe strutturale proprio il valore della condivisione. Sembra poco, detto così, ma sarebbe un enorme cambiamento: da una scelta fortemente condizionata dall’emergenza pandemica si potrebbe arrivare a una visione comune del futuro post-covid.

Scegliere di condividere è il primo passo per la costruzione sociale dell’Europa. Condividere le opportunità di lavoro, i diritti, le politiche attive e le tutele assistenziali; condividere il contrasto alla povertà e le politiche di inclusione; condividere l’impegno per il superamento di ogni disuguaglianza, gli obiettivi di benessere diffuso, la piena espressione di tutte le energie e le competenze.

Le ambizioni emerse a Porto, in particolare su spinta del presidente Draghi, diventano allora una sfida per tutte e tutti coloro che credono e hanno sempre creduto in un’Europa davvero comunità di donne e uomini, di lavoratrici e lavoratori.

La conferenza sul futuro dell’Europa, un confronto appena aperto dal presidente Sassoli e che durerà un anno, per discutere anche di un’Unione della salute, dei diritti, del sociale, è l’occasione per rendere vivo e produttivo l’impegno per questa sfida.

Il momento storico, guardando oltre il più grande stravolgimento che le nostre società e le nostre vite hanno vissuto, appare favorevole, anch’esso sfidante.

Ed è un segno positivo anche la Dichiarazione sui diritti sociali firmata dalla presidente Von der Leyen e dal presidente Sassoli insieme alle rappresentanze sindacali e imprenditoriali, che punta sull’occupazione di donne e giovani, sulla parità di genere, sulla lotta alla povertà e all’inclusione sociale.

Non posso non sottolineare negativamente, invece, il mancato riferimento nel documento finale alla parità di genere. Voglio, però, guardarla in positivo: la parità di genere per l’Europa è un valore non negoziabile, fondativo, che non può certo essere limitato da un’omissione in un testo formale. Dove c’è Europa c’è - e se non c’è ci deve essere - uguaglianza sostanziale tra donne e uomini. E se vogliamo davvero che l’Europa diventi una comunità sociale è il momento che questo non sia più un obiettivo, ma un’esperienza che chiunque, in qualunque posto e paese dell’Unione possa vivere e sentire vera.

Tutti gli impegni, le ambizioni e gli obiettivi di cambiamento positivo non possono allora, in questo senso, prescindere da un piano straordinario per il lavoro di donne e giovani: per eliminare le disparità occupazionali, di carriera, salariali. Per attivare quelle energie di futuro che oggi non valorizziamo, e che anzi escono dalla pandemia ancora più penalizzate. Per rendere davvero libere le scelte professionali e private, affettive e familiari di ogni uomo e ogni donna, e di ogni giovane uomo e giovane donna.

E allora con il Next generation EU prima, con il programma Sure se reso permanente, con investimenti sulla formazione che riguardino sia i percorsi scolastici e universitari che l’aggiornamento durante tutta la vita, l’Europa potrebbe (ma vorrei dire potrà) tornare a essere un modello di welfare. Un welfare condiviso, strutturale, comunitario e di crescita sostenibile, una crescita fondata su uguaglianza, conoscenza, ambiente e digitale.

Come ha giustamente ricordato il presidente Draghi a volte le politiche nazionali non bastano. Solo insieme si riesce a essere più giusti e più forti. E allora lavoriamo tutte e tutti insieme per essere protagonisti come paese di questa nuova Europa, per uscire dalla pandemia tutte e tutti più europeisti e più europei.

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