Frank, l’algoritmo usato da Deliveroo, non guarda in faccia nessuno. Leggendo la decisione del tribunale di Bologna, la portata storica del provvedimento risiede tanto nell’esito (l’accertamento del carattere discriminatorio del meccanismo e il risarcimento a carico della piattaforma), quanto nel percorso d’indagine sviluppato dalla giudice. I documenti interni presentati dalle federazioni sindacali, così come le testimonianze dei lavoratori, restituiscono un’immagine fedele del sistema di regole, incentivi e punizioni che reggono i servizi di consegne a domicilio. Un modello che discrimina in modo indiretto, dal momento che genera effetti (svantaggiosi) senza tenere conto delle differenti circostanze di fatto. Efficace quando si tratta di pianificare e gestire i flussi attingendo dalla flotta di lavoratori disponibili, del tutto sordo se si prova a invocare flessibilità, non solo organizzativa ma anche di giudizio.

Le valutazioni

Grazie al ricorso promosso dalla Cgil, si è venuto a sapere che i rider di Deliveroo erano valutati principalmente su due aspetti: affidabilità e partecipazione (usiamo il passato poiché la società sostiene di aver “aggiustato” le statistiche usate per la turnazione con i nuovi contratti sottoscritti a novembre, largamente contestati). Il combinato di queste metriche attribuiva al lavoratore un posto nella classifica interna; in virtù di tale piazzamento era più o meno probabile che questi fosse chiamato a prestare servizio o retrocesso. I lavoratori con un buon giudizio di “rettitudine” erano tra i primi a potersi candidare per i turni più ambiti e avevano la possibilità di scartare quelli scomodi. Tuttavia, ogni rinuncia nelle 24 ore precedenti il turno pesava sui futuri ingaggi. Succedeva che, al rientro da un periodo di assenza per le ragioni più varie (problemi di salute, impegni legati alla cura dei familiari, oppure agitazioni collettive), si fosse automaticamente declassati e si fosse costretti a ricominciare dall’inizio la “gavetta”.

Si è detto che l’autonomia dei lavoratori a chiamata si esprima nella facoltà di “spegnere” l’applicazione o di non “loggarsi” nel sistema gestionale interno. Da più parti, tuttavia, si è obiettato che la costante reperibilità contribuisce, insieme ad altri fattori quali il numero di commesse accettate e le valutazioni da parte della clientela, a definire il rating che per sua natura è imperfetto. Questo modello “a punti” determina un accentuato servilismo nei confronti degli utenti e della piattaforma il cui umore è imperscrutabile. L’autonomia è “virtuale”, e anche le corti vanno oltre il formalismo per analizzare le prerogative di comando esercitate dalle app, sempre più spesso equiparate a datori di lavoro tradizionali. Se sulla questione del corretto inquadramento si sono fatti passi avanti, è ora di aprire le “scatole nere” anche in virtù del regolamento Ue sulla protezione dei dati personali che limita il ricorso a sistemi di decisione automatizzata, rendendo trasparenti, imparziali e contestabili le meccaniche degli algoritmi.

La profilazione

La profilazione di lavoratori e clienti è ormai la divisione centrale del business per gli operatori della gig-economy, l’unica davvero promettente, a spulciare i documenti contabili in cui trionfa il segno meno in quasi tutti gli indici, nonostante la crescita del fatturato per via della pandemia. La “reputazione” interna ha un ruolo preminente, influisce sui compensi potenziali del lavoratore, tanto più in un regime di esclusiva. L’esercizio dei poteri di controllo e disciplinari è facilitato dai sistemi poco limpidi, che riproducono deliberatamente la logica imposta dal management ai programmatori.

Nelle ultime settimane, l’ecosistema del lavoro tramite piattaforma è tornato prepotentemente sotto i riflettori. Dopo la sentenza del tribunale di Palermo che ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto tra un fattorino e Glovo, è arrivato l’annuncio che la Commissione europea presenterà una proposta di direttiva per migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme, proprio mentre scorrevano le immagini della vile aggressione ai danni di un rider napoletano cinquantenne. Abbiamo l’opportunità di archiviare una volta per tutte tre falsi miti: quello della presunta autonomia dei lavoratori nel decidere se, quando e quanto lavorare, quello della obiettività sovrumana degli algoritmi che organizzano il lavoro, quello della forza lavoro fatta di giovanissimi in cerca di una paghetta. La realtà bussa alla porta.


Antonio Aloisi e Valerio De Stefano sono gli autori di Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano (Laterza Editore, 2020)

© Riproduzione riservata