In una raccolta di racconti Boris Pasternak, premio Nobel 1958 per la letteratura, così scrive: «Basta che vacilli la stabilità della società, basta che una calamità naturale o una disfatta militare scuotano la solidità della vita corrente, che pareva imprescindibile e sempiterna, perché colonne luminose di giacimenti morali, segreti, si sprigionino dal sottosuolo come per miracolo».

Una lucida osservazione che mi ha invitato a riflettere sul modo doloroso e paradossale in cui la recente pandemia – giustamente descritta dal presidente del Bundestag non come una guerra, ma come «un test della nostra umanità»– ha fatto esplodere il forte desiderio «morale e segreto» di un immediato rinnovamento del nostro sistema sanitario nazionale (Ssm). Sistema sanitario che, malgrado gli immani sforzi e le individuali motivazioni, non è riuscito a “prendersi cura” di migliaia di persone.
È sotto gli occhi di tutti: durante il periodo del contagio la terra sotto i piedi ha cominciato a muoversi, mentre la ragione si è trovata scoperta.

Abbiamo dovuto improvvisamente misurarci con la mancanza di certezze: poche informazioni sulla genesi del virus e il profilo della malattia, in assenza di sufficiente esperienza; assieme alla carenza di strutture adatte a prevenire e ad affrontare l’emergenza. Abbiamo dovuto prendere atto di questa parte vulnerabile del nostro vivere civile.

Abbiamo addirittura scoperto che anche i ricercatori più acclamati e i medici più preparati non sarebbero stati in grado di corrispondere al dramma delle persone contagiate dal Coronavirus. In particolare, la ferocia senza volto del virus ci ha confermato una realtà spesso dimenticata: l’evidenza che la popolazione anziana, i vecchi fragili e soli, ma soprattutto i poveri, muoiono e si ammalano più facilmente dei giovani e dei benestanti.

Il cinismo del darwinismo scientifico e sociale

Come ci ha ricordato Gianpaolo Berti: «Fede a parte, due volti più di altri ci aiutano a decifrare il nuovo scenario. Sono quelli di Darwin e di Marx». Il Covid 19 sembra avere cinicamente applicato la norma darwiniana della selezione naturale della specie. Ha mirato e colpito i più deboli ed esposti: persone già infiacchite da altre sofferenze e patologie. In primis, i nostri anziani: i padri dei nostri padri e le madri delle nostre madri. Di fronte a ciò l’aspetto maldestro e beffardo della vicenda è scoppiato.

Alcuni responsabili della sanità pubblica e privata, appartenenti a diversi paesi, compreso il nostro, per la mancanza di risorse, hanno condiviso il principio tecnico che se qualcuno ha da morire in questo scenario, è bene, anzi è meglio che sia l’anziano. Con la giustificazione di rincorsa che, in fondo, non potrebbe essere altrimenti, avendo l’anziano già vissuto abbastanza ed essendo meno forte per affrontare il domani.

Ma perché scomodare, a quel punto, Marx: il giovane rampollo della scuola hegeliana e il fastidioso provocatore delle ombre della religione? Il Covid, in effetti, è stato a suo modo una conferma della validità della filosofia marxista in campo economico: nel sistema capitalista gli esseri umani sono discriminati dal dispositivo produttivo e hanno diritti ben diversi in base alla quota del loro reddito.

Il 53 esimo rapporto Censis sulla situazione sociale del paese ha rafforzato l’oggettiva bontà di questa tesi. Insufficienti e inadeguate rimangono, tutt’oggi, le iniziative promosse a favore delle persone povere, non autosufficienti, e nei confronti del processo di decadimento e di invecchiamento progressivo della popolazione.

Con una frequenza sempre più alta e massiccia, le persone malate sono attualmente costrette, dai tempi interminabili di attesa e dal carattere burocratico degli uffici, a rivolgersi alle strutture sanitarie private, con la conseguenza prevedibile dell’aumento del numero di famiglie che sono costrette ad attingere esclusivamente al proprio patrimonio di denaro e di forze.

Si è affermato, in alcuni spazi televisivi, che il Covid è un virus altamente democratico, parente stretto della “livella” di Antonio de Curtis, in arte Totò; un contagio, indifferente alle diseguaglianze sociali e alla ricchezza dei singoli. Senza, invece, pensare che il virus ha solo allargato la forbice della disuguaglianza, aumentando a dismisura le distanze già esistenti sul piano economico e sanitario.

Qualche notizia storica per comprendere come sia necessario e urgente un rinnovamento del Sistema Sanitario Nazionale, in particolare lombardo. Dopo anni di vero caos, nel 1978 l’organizzazione sanitaria fece un enorme salto di qualità con la legge 833, che istituiva il Ssn basato sul ruolo centrale del governo, a garanzia del diritto universale alla salute.

L’indice di gradimento da parte dei cittadini fu allora molto elevato, ma negli anni successivi altre leggi ne hanno vanificato, per non dire sperperato, il principio riformatore. Infatti, a partire dal 1992 si è passati da un diritto alla tutela della salute costituzionalmente garantito a un diritto finanziariamente condizionato.

In pratica i bisogni di salute sono divenuti una variabile dipendente dalle compatibilità economiche e finanziare del Paese. Alle Aziende ospedaliere venne affidato il compito di garantire anzitutto il pareggio del bilancio, a prescindere dai risultati di salute degli assistiti. Da qui l’apertura al mercato privato e la conseguente competizione tra strutture pubbliche e private accreditate, alla ricerca delle prestazioni più remunerative secondo la logica del profitto di impresa.

Il malato non è un prodotto

Altro fattore, oggi particolarmente contestato, è stata la spinta alla regionalizzazione che assegnava nel 2001 alle singole Regioni la potestà legislativa di fatto “esclusiva” su assistenza e organizzazione sanitaria, comprese le sperimentazioni gestionali e la costituzione delle aziende ospedaliere.

L’autonomia regionale in tema sanitario ha inoltre prodotto conflittualità con il governo centrale e gli stessi comuni territoriali. E soprattutto creato una discrepanza tra Nord e Sud. Grazie appunto alla propria autonomia in ambito ospedaliero, la regione Lombardia, nel periodo in cui era presidente Roberto Formigoni, ha varato un proprio codice d’indirizzo (la legge 31 del 1997) che ha  profondamente modificato alcuni contenuti della legge nazionale 833.

L’ambizione dichiarata era quella di creare un “modello” lombardo che, oltre a presentare qualche aspetto di eccellenza, che non si può certo disconoscere, è stato il responsabile di alcune criticità sottaciute.

L’impostazione della sanità, secondo la logica del mercato, ha portato infatti alla cancellazione di ospedali minori, al taglio del personale medico e infermieristico, alla diminuzione dei posti letto e, soprattutto, alla desertificazione dei reparti di rianimazione.

Inoltre, l’eccessivo trionfalismo per una medicina ospedalo-centrica e tecnologica, presentata come il fiore all’occhiello delle Istituzioni lombarde private, ha impoverito la coltivazione della cura e della prossimità al malato sul territorio: pur sapendo che questa ha un costo di gran lunga inferiore e un impatto molto più incisivo sulla salute pubblica.

In sintesi, un cumulo nascosto di errori che hanno impedito la completa realizzazione della legge 833 e trasformato l’incontro con il paziente da rapporto altamente interpersonale a confronto prevalentemente oggettivante e avvilente.

La pandemia che abbiamo drammaticamente vissuto ha mostrato le ingiustizie di un sistema pensato più come impresa che come servizio; e, quindi, di un modello di sanità che considera «la salute come un prodotto e il malato come un cliente». Quest’ultima espressione ho voluto raccoglierla da un intervento del Cardinal Martini, riportato nel libro, da poco pubblicato: Curare la persona: medicina, sanità, ricerca e bioetica di Carlo Maria Martini (edizioni Ancora, settembre 2020).

Negli anni del suo episcopato, dedicato alla chiesa e alla città del capoluogo lombardo, Martini invitava i responsabili della cura e della cosa pubblica: «Ad affrontare i  temi della sanità secondo l’ottica di uno Stato Sociale che sappia coniugare insieme assistenza e produttività, efficienza e qualità, giustizia e solidarietà».

Un monito rivolto ai partecipanti del prossimo G20 della Salute che hanno l’obbligo morale di «prevedere, calcolare, rispondere moralmente e politicamente delle conseguenze dei propri atti e delle proprie parole». 

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