Qualche settimana fa, il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso presentato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), sancendo l’illegalità del respingimento di un uomo pakistano al confine con la Slovenia, poiché ciò avveniva in violazione del suo diritto di asilo. Nel frattempo, presso un altro tribunale, quello di Palermo, è in corso uno dei procedimenti penali a carico di Matteo Salvini, nato da una denuncia presentata da Proactiva Open Arms, in seguito al divieto di sbarco imposto alla nave dell’organizzazione spagnola.

Al di là delle importanti conseguenze dirette per le persone coinvolte, questi due casi sono esemplificativi di quegli spazi di opportunità che consentono di influenzare le politiche migratorie attraverso il terreno giudiziario, grazie alle ripercussioni di lungo termine sull’ammissibilità giuridica – e sull’accettabilità politica – di politiche quali, rispettivamente, i “respingimenti informali” verso la Slovenia o i cosiddetti “porti chiusi”.

Il sistema giudiziario

Il ricorso strategico al sistema giudiziario, con orizzonti più ampi rispetto al caso di specie (noto come “strategic litigation”), è divenuto, nel corso degli anni, un importante strumento in ambito migratorio, nella prospettiva di sancire l’illegittimità di alcune norme e pratiche, e creando così le condizioni per la definizione di percorsi radicalmente alternativi. Muovendosi, quindi, in una prospettiva diametralmente opposta a quella dei casi, ben più noti, in cui l’azione della giurisdizione si concentra su pratiche umanitarie e solidali – contestando violazioni ad oggi rimaste ancora indimostrate nelle aule di giustizia, e di cui abbiamo visto esempi significativi anche in questi ultimi giorni.

La portata di questo approccio è estremamente ampia e interessa organi giurisdizionali situati a diversi livelli. Esempi di ciò sono l’esposto depositato alla Corte penale internazionale contro Ue, Italia, Germania e Francia, la denuncia contro Italia, Malta e Libia al Comitato per i diritti umani delle Nazioni unite o, ancora, i procedimenti amministrativi attualmente in corso in Italia, da quello relativo al Fondo Africa a quello inerente il blocco delle navi Sar, recentemente sospeso dal Tar di Palermo, in seguito al ricorso presentato da Sea-Watch e rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione Europea.

Il progetto

Asgi ha addirittura lanciato un progetto specificamente rivolto all’implementazione della “strategic litigation”. I casi sono numerosi e interessano tanto il contesto politico dell’Ue, quanto quello dei suoi stati membri, Italia compresa. Tutto ciò si rivela cruciale per due ragioni distinte, ma al tempo stesso strettamente connesse.

In primo luogo, la continuità degli approcci di politica migratoria lungo lo spettro politico-ideologico (si pensi, ad esempio, al caso delle operazioni di ricerca e soccorso in mare o a quello dei decreti sicurezza di Salvini e Lamorgese). Tale continuità di fondo, che risale alla creazione dello spazio Schengen, rende infatti estremamente improbabile un cambio di paradigma sulla mera base di un cambio di governo o di maggioranza politica.

In secondo luogo, l’inaccessibilità del processo legislativo per le forme più o meno organizzate di aggregazione della società civile. Sono i governi ad avere in mano le redini di tale processo, in Italia come in Europa, peraltro con un ricorso sempre crescente a strumenti eterodossi e controversi, marginalizzando i parlamenti ed evitando lo scrutinio degli organi giurisdizionali (come nel caso del Memorandum italo-libico del 2017). In tale contesto, gli esecutivi hanno mano libera nel disegnare le proprie politiche lontano dagli occhi indiscreti dell’opinione pubblica. Alla luce di ciò, non lascia certo sorpresi l’impatto estremamente limitato avuto, nel corso degli anni, dalla società civile, attraverso strategie tradizionali di intervento sul processo decisionale, quali dialogo, consultazione e lobbying.

Azioni dirette

Così, a fianco di una profonda riflessione sulle condizioni che possano migliorare l’efficacia di strategie di advocacy, considerare opzioni alternative appare altrettanto importante. In tale contesto, l’uso della “strategic litigation” nella ridefinizione e implementazione delle politiche migratorie è un tema, credo, estremamente rilevante, e potrebbe alla lunga rivelarsi un fattore cruciale di cambiamento.

Nella stessa prospettiva, trovo utile menzionare brevemente altre due strade potenzialmente significative. La prima riguarda le azioni dirette – le pratiche –, diventate un input fondamentale per problematizzare e contestare gli approcci repressivi esistenti. Le attività di ricerca e soccorso in mare sono un chiaro esempio in tale ottica, considerando anche la consistente (ri)politicizzazione di questo ambito. Una riflessione critica sulle condizioni che possano rendere questo tipo di pratiche significativo anche in una prospettiva sistemica e di policy, in aggiunta al loro scopo primario di salvare vite, potrebbe quindi rivelarsi estremamente importante.

Una nuova coalizione

La seconda strada si intreccia con il ruolo marginale degli attori politici, a vario titolo progressisti, in termini di influenza sul processo decisionale, perché estranei alle coalizioni di governo o, comunque, dal ridotto peso politico. Potrebbe avere senso, per quelle realtà impegnate nel cambiamento del quadro di politica migratoria, soffermarsi su opportunità e modalità di una coalizione sociale, civica e politica, ampia e di scopo, prestando anche particolare attenzione ai processi politici delle città, dove diversi amministratori e amministratrici locali si spendono con forza su questi temi (le attività iniziali di From the sea to the city appaiono forse come l’esempio più avanzato, in quest’ottica).

Una riflessione sistemica per l’elaborazione di strategie di intervento nel processo decisionale, che contribuisca alla ridefinizione strutturale, dal basso, delle politiche migratorie italiane ed europee, è un qualcosa di complesso, che coinvolge attiviste e ricercatori, giornaliste e politici, operatrici e operatori del diritto, e ancora oltre. Nelle rispettive competenze e con una responsabilità condivisa. I quattro percorsi qui tratteggiati possono rappresentare un punto di partenza, da affrontare criticamente, arricchire, sperimentare, integrare e, se del caso, anche superare.

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