La prassi dei “respingimenti informali” messi in atto dal ministero dell’Interno di Luciana Lamorgese al confine con la Slovenia vìola la legge italiana e le norme dell’Unione europea. A stabilirlo, con un’ordinanza firmata dalla giudice Silvia Albano, è il tribunale di Roma, che ha condannato il ministero dell’Interno per il respingimento di un ventisettenne pakistano e ordinato «alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari a consentire il suo immediato ingresso nel territorio dello stato italiano». L’ordinanza, emessa all’esito di un procedimento cautelare urgente, è la prima ad affrontare la gestione della cosiddetta “rotta balcanica” e stabilisce che «sono numerose le norme di legge che vengono violate dall’Autorità Italiana» nell’utilizzare questa prassi.

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A due anni dall’approvazione dei decreti Sicurezza e nonostante il cambio di governo che proprio quei decreti ha formalmente modificato, è di nuovo un tribunale a condannare il Viminale per la gestione dei migranti. La differenza di fondo è che col ministro Matteo Salvini – tuttora sotto processo in Sicilia per la gestione dei casi Gregoretti e Open arms – lo scontro ha riguardato la legittimità di alcuni provvedimenti. La ministra Lamorgese, invece, ha sempre preferito muoversi nello spazio della prassi, che per sua natura non è esplicitamente regolamentata. Ma il pronunciamento del tribunale di Roma è un precedente che è destinato a fare giurisprudenza.

Minacce e violenze

All’interno delle 13 pagine di ordinanza, viene ricostruita la storia di Mahmood, uno dei quasi seimila migranti che solo nel 2020 hanno percorso la rotta balcanica per raggiungere l’Italia. In fuga dal Pakistan dove era stato perseguitato a causa del suo orientamento sessuale, a metà luglio 2020 è riuscito ad attraversare la frontiera a Trieste, dopo un durissimo viaggio attraverso i paesi della ex Jugoslavia, dove ha subito «violenze e trattamenti inumani al confine croato». Appena arrivato in Italia ha subito dichiarato di voler presentare domanda di protezione internazionale ma, nel giro di poche ore, è stato respinto di nuovo verso la Slovenia – «in assenza di alcun provvedimento» scrive il tribunale – poi verso la Croazia, dove ha subito violenze e torture, e successivamente in Bosnia Erzegovina, dove si trova ancora adesso.

All’arrivo a Trieste Mahmood è stato soccorso e medicato, poi lui e i suoi compagni sono stati avvicinati da persone in abiti civili che si sono qualificati come poliziotti e gli hanno chiesto informazioni sul loro viaggio. Quindi li hanno portati nella stazione di polizia. Qui ai migranti sono stati sequestrati i telefoni. Poi sono stati ammanettati, «caricati su un furgone e portati in una zona collinare (evidentemente sul confine sloveno)» e infine «intimati, sotto la minaccia di bastoni, di correre dritti davanti a loro. Dopo circa un chilometro sono stati fermati dagli spari della polizia slovena che li ha arrestati e caricati su un furgone».

La prassi è illegale

Proprio queste procedure “informali” sono oggetto di una interrogazione parlamentare, a cui il Viminale ha risposto sostenendo che si tratta di una prassi che attua un accordo bilaterale di riammissione sottoscritto con la Slovenia nel 1996, che però non è mai stato ratificato dal parlamento. Queste «procedure informali di riammissione in Slovenia vengono applicate nei confronti dei migranti rintracciati a ridosso della linea confinaria italo-slovena, quando risulti la provenienza dal territorio sloveno, anche qualora sia manifestata l’intenzione di richiedere protezione internazionale», spiega il ministero, precisando anche che la procedura «non comporta la redazione di un provvedimento formale, applicandosi per prassi consolidata le procedure previste dal relativo accordo di riammissione, siglato tra l’Italia e la Slovenia». Insomma, nessun documento che lasci traccia di quanto avviene al confine italo-sloveno.

Proprio questa prassi viene oggi condannata dal tribunale di Roma, che nell’ordinanza mette a fuoco tre aspetti: l’accordo bilaterale con la Slovenia nel 1996 non è mai stato ratificato dal parlamento, «ciò comporta che non può prevedere modifiche o derogare alle leggi vigenti in Italia o alle norme dell’Unione europea o derivanti da fonti di diritto internazionale (art. 80 della Costituzione)». Inoltre, scrive la giudice Albano, il riaccompagnamento forzato in Slovenia «incide sulla sfera giuridica dei soggetti interessati, con la conseguenza che deve essere disposto con provvedimento amministrativo motivato, notificato al soggetto interessato e impugnabile innanzi all’autorità giudiziaria», tanto più se non si provvede nemmeno a raccogliere la domanda di asilo «con una prassi che vìola la normativa interna e sovranazionale in materia», ovvero il regolamento di Dublino del 2013, per la determinazione dello stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale. Infine, con questa procedura l’Italia vìola la Carta europea dei diritti fondamentali, che vieta le espulsioni collettive e impone di esaminare in modo individuale le singole posizioni.

Ora il ministero è condannato a pagare le spese legali del giovane e a consentire il suo rientro in Italia. Indirettamente, invece, questa ordinanza destinata a fare scuola, potrebbe costringere a rivedere la prassi dei respingimenti.

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