Tra le numerose aziende che hanno iniziato a comunicare una “conversione verde”, anche in vista di un “nuovo inizio” post Covid nel rispetto del delicato ecosistema ambientale e contro i disastri provocati dai cambiamenti climatici, spicca l’Eni, principale azienda italiana del settore petrolifero. La tambureggiante campagna di comunicazione del cane a sei zampe, presenta il proprio piano industriale come a forte vocazione ambientale.

La domanda è se questo piano sia effettivamente una risposta alla crisi climatica. Come abbiamo cercato di spiegare in un documento di analisi firmato con altre associazioni, la risposta è no. Il quadro degli interventi, infatti, prevede un aumento delle attività estrattive di gas e petrolio fino al 2025 e una diminuzione di quelle petrolifere dopo quella data.

Qualche investimento limitato a breve medio periodo sulle rinnovabili – 5 gigawatt (GW) al 2025 e ben 55 ma solo al 2050 – e un forte impegno nella tecnologia del Ccs (Cattura e Stoccaggio della CO2) da realizzarsi a Ravenna.

Poiché i prossimi 10 anni sono quelli decisivi per combattere la crisi climatica e, quindi, bisogna tagliare del 50 per cento le emissioni globali entro il 2030, il piano Eni non solo non serve all’obiettivo ma contribuirà alla crisi climatica: le emissioni globali dell’azienda, infatti, cominceranno a scendere solo dopo il 2035. Va ricordato che le emissioni di CO2 dell’Eni – incluse quelle legate all’uso di gas e petrolio venduti globalmente dall’azienda e della relativa quota emessa dai suoi fornitori– è persino superiore a quello totale dell’Italia del 28 per cento circa.

La richiesta di fondi Ue

Nel frattempo l’azienda chiede di accedere ai fondi europei per la ripartenza – il 37 per cento dovrà essere destinato alla lotta ai cambiamenti climatici – per finanziare il Ccs a Ravenna, dove si progetta di stoccare nel sottosuolo fino a 6 milioni di tonnellate all’anno di CO2 per una quantità cumulata di 300 milioni di tonnellate. L’efficienza della “cattura e stoccaggio”, però, è del 90-95 per cento, per cui una quota di emissioni di anidride carbonica non sarà eliminata.

Questa tecnologia, promossa dall’industria fossile da 20 anni, è ancora allo stadio iniziale e, un recente rapporto dell’Iea (International Energy Agency) stima che i costi per il Ccus siano di 65 dollari a tonnellata. Il trasporto e lo stoccaggio pesano per 20 dollari a tonnellata. Non solo, la “U” sta per “utilizzo della CO2”, che in genere è usata per estrarre il petrolio, e dunque va da sé che continuare a usare anidride carbonica significa mettere benzina sul fuoco della crisi climatica.

Il progetto Eni – Ccs, però, non prevede un utilizzo della CO2 ma solo la cattura e lo stoccaggio nel sottosuolo quindi avrebbe un costo più alto di quello stimato dall’Iea in quanto la CO2 catturata non produrrebbe un servizio nell’utilizzo. Dunque, Eni invece di combattere la crisi climatica puntando massicciamente su tecnologie disponibili (rinnovabili) o in fase di sviluppo come l’eolico galleggiante, e dunque anticipando i 55 GW al 2030 come sarebbe coerente fare, oltre ad aumentare l’estrazione di idrocarburi, prende una strada molto costosa e non risolutiva. Ci sono incertezze sulla sicurezza dello stoccaggio nel sottosuolo, i rischi di possibili rilasci saranno a carico dell’Eni solo per i primi 30 anni e, ammesso che vada tutto bene e non ci siano fuoriuscite successive di CO2, si tratta di operazioni legate a siti specifici e non generalizzabili.

Salvare il metano

Perché allora Eni insiste sul Ccs tecnologia costosa, non generalizzabile e rischiosa? Per cercare di mantenere il valore dei suoi asset fossili, prima di tutto di gas. E questo per una ragione strutturale. L’azienda italiana, diversamente da altre major petrolifere, punta sulle fonti convenzionali di idrocarburi e ad accumulare riserve petrolifere e di gas. Su questa base il gruppo Wood MacKenzie valuta Eni finanziariamente positivo perché ha aggiunto risorse addizionali per 2 miliardi di barili di petrolio equivalente ai 2,5 già stimati in precedenza. Di questi asset fossili, frutto di esplorazioni petrolifere e di gas, poi l’azienda ne vende solo una quota minore. Quindi Eni punta ancora fortemente a accumulare riserve di petrolio e gas e la sua strategia ne prevede l’utilizzo per molto tempo. Tradotto: puntare sul Ccs – al di là della credibilità della tecnologia - è un modo di Eni per giustificare l’immutata strategia “fossile”.

Altra questione: la tecnologia Ccs applicata alla produzione di idrogeno da gas fossile – per un kg di idrogeno da gas fossile se ne emettono 7-8 di CO2 – aiuterà nella transizione all’idrogeno verde, cioè da rinnovabili? No, perché richiede tutta un’altra filiera: forte produzione da rinnovabili e investimenti massicci in elettrolizzatori che estraggano idrogeno dall’acqua. Per questa ragione la richiesta di accesso ai fondi europei per la tecnologia Ccs rappresenta un vero e proprio furto ad altre soluzioni – rinnovabili e idrogeno verde - per mantenere a galla l’industria fossile con una speranza tecnologica che è tutta da dimostrare.

Una controprova che il piano di Eni è una sorta di “truffa climatica” viene dagli Usa dove, già oggi, aziende elettriche private, invece di ricostruire centrali a gas – in un Paese dove costa la metà che da noi – costruiscono impianti solari fotovoltaici accoppiati a batterie industriali. Evidentemente, la politica energetica italiana deve rimanere ancorata ai diktat di Eni e della lobby del gas: fino a oggi sono cambiati i governi ma non è cambiata questa linea pro fossili.


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