Nell’intervento della senatrice Elena Cattaneo No all’oligarchia della scienza (La Repubblica, 19 Marzo 2021) si sottolinea il ruolo che le università possono avere (e già stanno avendo) come agenti di sviluppo dei territori e l’idea che la capacità di innovazione sia diffusa. Anche per questo, la concentrazione in pochi grandi poli “di eccellenza” non costituisce la via maestra. Quali effetti ha la concentrazione delle risorse in pochi grandi poli in un paese dove le aree lontane dai servizi essenziali sono pari al 22,5 per cento della popolazione, al 51,7 per cento dei comuni e al 59,8 per cento della superficie?

Un paese policentrico e “rugoso” costituito dall’alternarsi di zone collinari, di bassi monti coltivati e abitati, dall’intrecciarsi di zone pianeggianti, di città medie e di montagne, con sbocchi al mare e migliaia di chilometri di coste. Un policentrismo territoriale, questo, che contraddistingue anche i luoghi che rimandano un’idea di omogeneità, come le città metropolitane.

In Italia, 12 su 14 città metropolitane sono costituite da percentuali importanti di Comuni classificati come montani o parzialmente montani; 6 (Genova, Roma, Reggio-Calabria, Messina, Palermo, Cagliari) ne hanno più del 50 per cento, mentre 6  (Torino, Firenze, Catania, Bari, Napoli e Bologna) ne hanno meno del 50 per cento. Solo due (Milano e Venezia) non hanno Comuni montani o parzialmente montani all'interno dei loro confini amministrativi. Inoltre, circa 90 tra capoluoghi di provincia e comuni con più di 50mila abitanti distano meno di 15 chilometri da un’area montana.

Considerare il policentrismo

Progettare il futuro del sistema della ricerca senza considerare le specificità del policentrismo equivale a progettare un abito sartoriale senza rilevare le misure del cliente. È un esercizio di metafisica che, al meglio, tradisce la tipica metrofilia che caratterizza buona parte della classe dirigente. Esiste un nesso cruciale fra dove sono le università e di cosa si occupano le università. Esiste una spazio enorme per un diverso tipo di trasferimento tecnologico legato alle esigenze delle aree montane e interne, dalle tecnologie appropriate, alle energie, alla logistica, all’architettura, al potenziamento dei consumi e dei servizi collettivi.

Oppure, pensiamo alla ricerca geologica, alle applicazioni ingegneristiche, zootecniche o agronomiche: le nostre università potrebbero trovare in una strategia di specializzazione basata sul policentrismo una identità riconosciuta e riconoscibile. Ne è un esempio il progetto Unita – “Universitas Montium” guidato dall’università di Torino che coinvolge un’alleanza tra atenei di Francia, Spagna, Romania, Portogallo all’insegna dello sviluppo sostenibile e sul green deal europeo in grado di intercettare i bisogni dei territori interni.

Lo stesso vale per i poli tecnologici del nostro paese, molti dei quali capaci di competere a livello internazionale, ma incapaci di leggere i bisogni dei territori più prossimi. Da questo punto di vista, prossimità vuole dire anche internazionalizzazione: la rugosità dell’Italia è infatti un laboratorio di ricerca straordinario, perché consente di piegare la produzione di conoscenza a una varietà di luoghi tale da intercettare sistemi ecologici, sociali ed economici che si ritrovano in modo meno diversificato in tanti altri paesi del mondo.

Inoltre, la localizzazione conta non solo per la ricerca e la “terza missione”, ma anche per una didattica connessa a un pendolarismo sostenibile, con sedi specializzate e più diffuse sul territorio. Per questo le università dovrebbero dotarsi di una figura istituzionale di riferimento con una delega al policentrismo territoriale. Anche l’ultimo e più piccolo comune della regione, che magari sta sviluppando una innovativa comunità energetica o una strategia per la valorizzazione della filiera agroalimentare, deve vedere nel sistema della ricerca un interlocutore strategico.

Il rapporto con il policentrismo territoriale non deve configurare una proliferazione di sedi senza strategia, strada come sappiamo destinata al fallimento e a nutrire il potere di cordate accademiche. Il rapporto con i territori lo si costruisce se le sedi decentrate diventano nodi di reti di università con diversi gradi e tipi di specializzazione e se i docenti vivono e investono in quelle specifiche sedi. Uno sguardo territorialista ci suggerisce quindi che la scelta non tra “concentrare” o “distribuire”, ma consorziare agli atenei per dare massa critica e specializzazione ai corsi di dottorato e ai progetti di ricerca di ampio respiro. Ma anche per supportare percorsi di carriera istituzionalmente in carico a diversi atenei, che vedano i ricercatori come connettori tra gruppi di ricerca e territori. Una buona rete di atenei distribuita sul territorio rappresenterebbe anche la premessa per la costruzione di “poli di area” capaci di rispondere alle esigenze di massa critica, senza consegnare la distribuzione delle risorse a una logica a somma zero. Non tanto un’università per ogni luogo, ma una rete di università che agisca guardando alle opportunità offerte dalla diversità dei luoghi.

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