Dobbiamo pensare a chi lo canta, prima che al disco

Questo biennio è stato drammatico per il mondo dello spettacolo, sia a livello nazionale sia a livello globale. Concerti mancati, Spettacoli annullati e Teatri chiusi non hanno fatto altro che alimentare la tristezza della vita in lockdown, ma soprattutto non hanno fatto altro che stravolgere la vita dei lavoratori del mondo dello spettacolo.

È proprio in questo momento che una delle proposte del Governo secondo me ricopre un ruolo incredibilmente importante: 18app.
18app è un'iniziativa del governo introdotta nel 2016 che prevede un buono dal valore di 500€ da spendere in beni e servizi legati alla Cultura. Ha avuto un ottimo successo, ed è ora alla sua quinta edizione (i nati nel 2002 sono gli attuali beneficiari). Il Bonus Cultura è spendibile per l’acquisto di biglietti del cinema, CD musicali e Vinili, biglietti per concerti, eventi culturali, libri, musei, teatro e molto altro ancora.

Il 2021 dovrebbe essere l’anno del Rilancio per il settore dello Spettacolo, e questo Voucher Statale avrebbe un potenziale immenso nella ripresa, se utilizzato nel modo giusto. Il mercato dell’Home Entertainment ha subito uno scossone importante con l’avvento delle piattaforme streaming con canone mensile, che hanno decimato l’acquisto degli altri supporti digitali ed analogici come CD, DVD, Bluray e Vinili, divenuti ormai “superati” se non proprio dimenticati dalle nuove generazioni.

Il cambio di rotta subito dal mercato ha comportato anche la variazione della composizione degli introiti di artisti, case produttrici e agli altri soggetti precedentemente impiegati. In ambito musicale, per esempio, gran parte degli utili deriva dalla vendita dei biglietti per i concerti, dove buona parte del prezzo viene percepito dagli artisti. Lentamente però, l’acquisto di Vinili sta pian piano risalendo, e ci sono buone probabilità che anche i Compact Disc possano seguire la stessa tendenza.

Ed è qui che 18app ricopre un ruolo chiave: permettere l’acquisto di questi supporti che normalmente verrebbero lasciati in disparte. Ora però, è lecito chiedersi perché questi supporti sono stati abbandonati.

Da un punto di vista meramente economico, oggigiorno è possibile acquistare un CD nuovo, all’uscita, ad un prezzo di 20€ circa.
Grazie alla grande distribuzione e ad una domanda particolarmente esigua, il prezzo crolla nelle settimane e mesi successivi anche del 50%. Sui CD “più vecchi”, poi, tali percentuali di deprezzamento possono salire ulteriormente, permettendo di pagare veri pezzi di storia della musica cifre irrisorie. Grazie a delle promozioni attuate dalle catene, è poi possibile fare dei veri e propri affari, pagando un CD con l’80% di sconto (come nel caso di Unieuro nei giorni scorsi).
Se si desse uno sguardo al mercato dell’usato, inoltre, si potrebbero acquistare interi lotti di CD a cifre ridicole.

Lo stesso discorso vale per i Blu-ray, mentre per i Vinili la faccenda è diversa, dato che stanno tornando ad un livello di popolarità incredibile. Rapportando questo al costo mensile di una piattaforma di streaming mensile, però, quest’ultima risulterà più economica, anche se inferiore dal punto di vista qualitativo, e perciò preferita al supporto fisico.
È sul lungo periodo che la differenza diviene meno trascurabile, dato che l’acquisto di un supporto fisico permette di poter fruire più volte anche a distanza di molto tempo del contenuto, cosa non scontata con i servizi di streaming, che sono soggetti a variazioni nell’offerta e di disponibilità.

Una sensibilizzazione su questi temi, come un’educazione alla fruizione dei contenuti nel rispetto dei produttori e al diritto d’autore sarebbe oltremodo necessaria nella nostra vita, così come un impiego maggiore di soluzioni come 18app da parte dello stato per aiutare i settori in crisi.

Chi poi, meglio degli artisti stessi, potrebbe curare un movimento del genere? Anche con post sui social, commenti nei programmi Tv e nelle radio, o chissà in quanti altri modi.

Un’azione congiunta tra Stato e Artisti, il primo fornendo dei bonus simili a 18app ma magari indirizzati a target diversi, e gli altri sensibilizzando a dovere la popolazione con messaggi mirati, potrebbe seriamente rilanciare un settore che, anche per colpa nostra, sta morendo.


Perché non si pensa al futuro?

L’ingresso di Chiara Ferragni nel consiglio di amministrazione di Tod’s e la salita di Lvmh, al 10 per cento del capitale, hanno fatto schizzare al rialzo il titolo in Borsa. Questo ha mostrato dei difetti del modo di fare impresa in Italia.

Osserviamo come il dinamismo imprenditoriale italiano non è venuto meno neanche nell’ultimo decennio, con un Pil a crescita zero ma allo stesso tempo non si è sviluppata la capacità di portare le aziende nel mercato globale dei beni e dei capitali.

In un mondo in cui la dimensione è cruciale non basta avere i prodotti migliori, bisogna fare grandi investimenti per farli conoscere nel mondo e raggiungere ovunque i consumatori, così da facilitare l’accesso al mercato dei capitali e permette di diversificare su più prodotti e marchi il rischio di impresa. Con la globalizzazione spariscono le nicchie protette dalla concorrenza.

Tod’s, nonostante i successi iniziali e lo sbarco in Borsa è rimasta un’azienda di medie dimensioni a controllo familiare e infatti dal 2015 i ricavi hanno cominciare a diminuire stabilmente.

E non è la prima volta che in Italia venga creato un marchio di successo poi ceduto a colossi stranieri, e allora perché le imprese italiane non si adattano al cambiamento?

Sappiamo che per crescere oltre una certa dimensione l’imprenditore-ideatore del prodotto deve necessariamente fare un passo indietro, affidare la gestione a una squadra di manager, e diluire la propria quota al di sotto del controllo per poter raccogliere i capitali sul mercato. E allora perché non succede?

In Tod’s, ad esempio, a 20 anni dalla quotazione, e dopo la cessione del 10 per cento a Lvmh, i Della Valle mantengono ancora il 64 per cento. Lo stesso vale per gli altri campioni del lusso quotati. Unica eccezione Moncler, controllata dal fondatore Ruffini col 20 per cento.

Tutte imprese ancora mono-marchio, legate al fondatore, e anche le più grandi sono sottodimensionate e dovrebbero fare da aggregatori per competere con le varie Lvmh e Kering.

Naturalmente il modello attuale può andare bene ora ma prima o poi può arrivare una crisi e allora si deve vendere al concorrente più forte.  

E allora perché non si pensa al futuro? Se queste debolezze che riguardano non solo il settore della moda, ma l’economia del paese, non è il caso di cambiare modello?

I grandi gruppi privati hanno tanti benefici, portano più occupazione qualificata e investimenti, crescita della classe manageriale, sviluppo del mercato dei capitali e maggiore propensione del risparmio a investire nel capitale di rischio, elementi indispensabili allo sviluppo. Se il modo di fare impresa non cambia, allora chi ci pensa al futuro?


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