Evidentemente otto mesi di carcere – a tanti siamo arrivati dal giorno dell’arresto – per un innocente non bastano al feroce sistema giudiziario egiziano.

Con l’esito dell’udienza del 7 ottobre, che ha prorogato la detenzione preventiva di Patrick Zaki di altri quarantacinque giorni, si arriverà a nove mesi e mezzo.

Lo studente dell’università di Bologna, originario di Mansoura e lì intenzionato a tornare in visita alla famiglia a febbraio, è indagato per cinque diversi capi d’accusa contenuti in un mandato di cattura emesso nel settembre 2019, quando era già in Italia: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Il tutto, secondo la Procura suprema per la sicurezza dello stato, fatto mediante un profilo Facebook che peraltro non è suo.

Insomma, secondo l'accusa, anziché trascorrere i primi nove mesi del 2019 a studiare come un pazzo per superare una selezione rigorosissima per frequentare il master in Studi di genere dell'Università bolognese, Patrick avrebbe cospirato per minacciare la sicurezza nazionale.

E sempre secondo l'accusa, anziché frequentare con successo – superando esami – quel master, Patrick avrebbe continuato a minacciare il suo paese anche dall'estero.

Accuse semplicemente ridicole. E quel che è peggio è che la vicenda di Patrick non è unica, né dal punto di vista delle accuse né da quello del ricorso alla detenzione preventiva a oltranza.

Le accuse nei suoi confronti sono uguali a quelle rivolte a dissidenti politici, manifestanti pacifici, avvocati, giornalisti, esponenti di organizzazioni non governative.

Così come uguale è il calvario della detenzione preventiva, prolungata dalle autorità giudiziarie egiziane fino al massimo consentito di due anni e a volte raddoppiato, alla scadenza di tale limite temporale, mediante il ricorso a nuove accuse.

Alaa Abdelfattah, uno dei leader della rivoluzione del 2011 che costrinse alle dimissioni Hosni Mubarak, è in carcere dal settembre 2019 così come l’avvocata Mahienour el-Masri. Sanaa, la sorella di Alaa, ha superato i cento giorni di detenzione preventiva, mentre un’altra avvocata, Hoda Abdelmoneim, raggiungerà i due anni di carcere senza processo il primo novembre.

Di unico, però, la vicenda di Patrick ha qualcosa: riguarda uno studente che per due stagioni ha frequentato Bologna, la sua università, i suoi portici, i suoi bar, il suo stadio. La sua è una storia anche italiana, dunque. Non semplicemente una vicenda giudiziaria egiziana affidata all'arbitrio della procura anti-terrorismo del Cairo.

Bologna e le sue istituzioni, politiche e accademiche, sono da febbraio alla guida – insieme ad Amnesty International e ai suoi partner, come Articolo 21 e Festival dei diritti umani - della campagna per ottenere l’annullamento delle accuse e la scarcerazione di Patrick. I suoi amici e colleghi di studio tengono alta l’attenzione. Tanti comuni hanno conferito simbolicamente la cittadinanza onoraria.

C’è lo “zaquilone”, l’aquilone disegnato dall'artista-attivista Giancarlo Costantini, che sta volando sui cieli d'Italia, da ultimo all’Arco della pace di Milano e domenica – condizioni meteo permettendo – alla Rocca della pace di Assisi. Ci sono le sagome col volto di Patrick che riempiono biblioteche, sale cinematografiche, festival, concerti e rassegne letterarie.

Ci sono le manifestazioni, partecipate sempre fino al numero massimo di presenze consentito dalle norme per il contrasto alla pandemia. Ci sono giornali che ne scrivono, che intervistano parenti e avvocati di Patrick. Ci sono parlamentari italiani ed europei che interrogano, che twittano. C’è Pippo Civati che ogni giorno scrive un post.

Ma a questa grande e generosa mobilitazione manca un sostegno fondamentale: il nome di Patrick è scomparso dall’agenda del governo Conte. Non sono sufficienti le espressioni dispiaciute, le promesse dell’ambasciata al Cairo di riprendere a monitorare le udienze. Occorre dare segnali di scontentezza a quello che l’ex ministro Alfano definì “partner ineludibile”.

Il 7 agosto, secondo quanto emerso da inchieste giornalistiche, il consiglio dei ministri ha dato il via libera alla vendita di due fregate militari all’Egitto: non esattamente un segnale di scontentezza. Anzi, la conferma che i diritti umani possono essere sacrificati. Patrick ringrazia.

© Riproduzione riservata