La democrazia è una scoperta recente. Le istituzioni politiche moderne guardano da subito con ammirazione molto più a Roma che ad Atene. È solo dopo la Seconda guerra mondiale, grazie all’evidenza per cui la sovranità degli stati può abusare dell’energia dei nazionalismi per legittimare persino la barbarie, che la democrazia diventa non solo una forma di governo tra le altre, ma un ideale capace di garantirci dal rischio più grande, che non è quello della debolezza del sovrano. ma quello della sua tracotanza. Nel pluralismo delle sue forme, è a questo modello di democrazia che ci rivolgiamo oggi con la nostalgia delle cose preziose e perdute, come ci accade di fronte al film di Paola Cortellesi. Non potrà però essere la nostalgia a salvarci, ma la speranza. Non ci salveremo sentendo la democrazia come una cosa perduta, ma come una cosa che ancora deve avvenire.

Così, nel dramma della storia, la democrazia si aggiunge all’evoluzione dello stato e, in particolare, alla forma dello stato liberale, con cui non coincide di certo. La democrazia è una scoperta recente quanto necessaria, perché ciò che lo stato liberale declina in negativo la democrazia osa pronunciarlo in positivo. Non si tratta solo di difenderci dall’abuso di potere, ma anche di spezzare il potere e condividerlo attraverso la partecipazione politica, l’impegno pubblico, le reti di cittadinanza e di solidarietà.

Perché ricordare queste cose ovvie di fronte alla riforma costituzionale proposta dal governo Meloni? Le critiche nei suoi confronti sono tutte tecnicamente ineccepibili, ma non bastano. A esse conviene affiancare tutte le competenze ancora appassionate dell’ideale democratico, perché la politica non è soltanto la semplice applicazione della tecnica costituzionale, è ciò che successivamente si sedimenta e diventa forma di vita, modello di pensiero e orizzonte di aspettative. Ed è per questo che bisogna ricordare, con la stessa ferocia che brilla negli occhi di colui al quale stanno togliendo l’ultima briciola di pane, che la democrazia può essere disossata e ridotta a un guscio vuoto. A me pare che anche questa proposta di riforma costituzionale, più torbida di altre (l’aggettivo è della costituzionalista Alessandra Algostino), usi un bisturi per compiere una vera e propria operazione chirurgica: sottrarre allo stato liberale quel surplus rappresentato dalla democrazia non come semplice forma di legittimazione del potere, ma come vera e propria forma di vita.

La tentazione

Su una cosa Giorgia Meloni ha ragione, ed è definire questa come «la madre di tutte le riforme». Il suo bisturi è orientato benissimo e vuole approfittare di decenni in cui abbiamo sostituito la pazienza del parlamentarismo con la tentazione dell’unto del signore. Come facciamo però a condurre l’ennesima opera di resistenza, se per anni anche noi abbiamo contribuito a questa inesorabile erosione dell’ideale democratico, che non si riduceva alla libertà di votare il nostro carnefice ma alla possibilità di partecipare realmente alle scelte attraverso l’esercizio della delega, la partecipazione collettiva agli enti intermedi e ai partiti, la connessione inesausta tra politica e società civile? Se mi guardo indietro, quelle macerie della democrazia che Meloni vuole trasformare in un deserto sono state lasciate anche da noi.

Le uniche forme di partecipazione politica che abbiamo saputo coltivare sono le primarie e le elezioni locali, dove il potere di un sindaco o di un presidente regionale strizza l’occhio all’idea che la democrazia non sia nient’altro che la scelta di uno solo da parte di molti. Non parliamo d’altro che di capi, ne siamo letteralmente ossessionati. Chi sono i grandi leader degli ultimi vent’anni, a sinistra? Non ne trovo uno la cui legittimazione non sia stata un’incoronazione carismatica. Da Renzi a Bonaccini a tutti i sindaci d’Italia, ci siamo abituati all’idea che non ci sia altra strada per vincere che scegliersi un vero capo.

E poi fermarci lì. Forse – e sono uno che non le ha mai risparmiato critiche – bisogna riconoscere alla Schlein che la sua grande difficoltà è il suo grande merito: il fatto che non si accontenti dell’incoronazione delle primarie, ma cerchi di legittimare il proprio potere spostando anche solo di poco la sostanza politica delle cose.

Siamo distratti

Se la democrazia è il vero bersaglio della riforma Meloni, finora non l’abbiamo difesa abbastanza. Quel bisturi abbiamo fatto finta di non vederlo, e continuiamo a preoccuparci di altro. Ma proprio per questo e per non urlare ancora una volta al lupo, bisogna che chiariamo i termini del conflitto che ci attende. E per farlo non dobbiamo dimenticare quel ritardo genealogico della democrazia da cui sono partito. Se essa è una scoperta tardiva, si fa presto a tornare a uno stato con sembianze liberali ma svuotato della sostanza democratica o in cui la democrazia sia di nuovo niente più che una tecnica del governo. Arriva un punto – e la riforma Meloni mi sembra precisamente questo traguardo – in cui si toccano e si confondono tra loro democrazia illiberale e stato neoliberale. Che cos’è lo stato neoliberale? È quel progetto politico teso a ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione illimitata del capitale e a ripristinare il potere delle élite economiche. Non è una novità che la sua attuazione dipenda dallo svuotamento dei valori positivi della democrazia per lasciarne solo una forma minima.

Tutto rimane invariato: non c’è nessun colpo di stato in vista. Ma il bisturi incide lo stato neoliberale e lo svuota con precisione di quella fastidiosa cisti democratica: quel nocciolo duro che permetteva non solo di aver garantite le libertà negative, ma anche di poter modificare in senso positivo la nostra forma di vita; di poter decidere davvero e insieme, di trasformare gli equilibri sociali, di far modo che i senza parte potessero finalmente recitare una parte. Una parte, non semplicemente un voto. C’era un parlamento, c’erano dei partiti. Quando la Meloni ci sfida chiedendoci se vogliamo decidere noi o lasciare che decidano i partiti, dobbiamo riuscire a dire che senza i partiti non potremo più essere noi a decidere. Perché il tempo e l’incertezza delle discussioni tra partiti sono il tempo concesso alla partecipazione di tutte e di tutti. Non è tempo perduto, è tempo guadagnato. Il tempo guadagnato della democrazia. L’alternativa che ci sta proponendo non è tra noi e i partiti, ma tra uno solo e noi. Non c’è nessun colpo di stato all’orizzonte, solo un colpo di democrazia.

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