Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


Il “bunkerino” è uno stretto corridoio di una quindicina di metri, almeno credo, dato che non abbiamo mai pensato di misurarlo, cui si accedeva da una porta in ferro con la vernice scrostata e mai riverniciata. All’esterno era installata una telecamera che consentiva di vedere chi vi accedesse. All’interno, sulla destra, si apriva una prima stanza adibita a segreteria, subito dopo quella di Giovanni, e poi ancora quella di Paolo.

In fondo c’era un angusto locale, occupato da Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico, quando venne ucciso il giudice Rocco Chinnici. Paparcuri aveva ripreso a lavorare presso il nostro ufficio e, con grande spirito di servizio, dedizione e impegno non comune, si era riconvertito in un ottimo, esperto informatico.

Sul lato sinistro si apriva la porta che immetteva nell’archivio. In quei locali erano custodite centinaia di faldoni contenenti gran parte delle copie degli atti raccolti a decorrere dai primissimi anni Ottanta. E, nonostante la mole di carte fosse lievitata sino a farsi smisurata, tutti noi eravamo diventati in grado di individuare il faldone in cui era conservato il documento che, tra migliaia, ci interessava consultare.

Quei documenti erano ancora lì il 5 gennaio 1995, quando, come giudice istruttore in proroga, misi fine all’esperienza del pool antimafia con il deposito del cosiddetto maxi-quater, ovvero l’ordinanza-sentenza a carico di Alfano Michelangelo + 183, ai quali si contestavano una quarantina di reati.

All’esterno del “bunkerino”, lungo il corridoio del primo piano rialzato, si trovavano le stanze occupate da me (prima di posizionarmi in quella lasciata da Paolo) e da Giuseppe Di Lello, nonché una spaziosa stanza adibita a ufficio di quel manipolo di finanzieri, al comando del capitano Ignazio Gibilaro, che ci ha fattivamente e provvidenzialmente supportati nell’esame della copiosissima documentazione bancaria (assegni, libretti di risparmio, distinte, transazioni) nella quale, altrimenti, ci saremmo persi.

Fuori dalla porta del “bunkerino” stazionavano i ragazzi delle scorte e, molto spesso, si vedevano giornalisti in cerca di notizie.

A proposito di rappresentanti della carta stampata, l’inattesa collaborazione di Tommaso Buscetta, il primo importante “uomo d’onore” a transitare dalla parte dello Stato, calamitò ulteriormente l’attenzione della stampa, che diede grande risalto, oggi si direbbe “mediatico”, alle iniziative poste in essere dal pool, avamposto di contrasto al dilagare del fenomeno mafioso. Tra i cronisti che si occuparono delle nostre vicende desidero ricordare Attilio Bolzoni, Giuseppe D’Avanzo (prematuramente scomparso il 30 luglio 2011), Francesco La Licata, Saverio Lodato, citati in rigoroso ordine alfabetico, decani del giornalismo antimafia e di inchiesta, i quali hanno scritto articoli e libri su Cosa nostra e sulle connessioni con il potere politico, assolvendo con rigore e onestà intellettuale a un compito fondamentale: informare l’opinione pubblica, disvelare ciò che qualcuno vuole nascondere, cercare e fornire prove, scoprire la verità.

Attilio Bolzoni e Saverio Lodato vennero addirittura sottoposti, nel 1988, a misura cautelare in carcere con l’accusa di avere pubblicato alcune dichiarazioni, ancora coperte dal segreto istruttorio, del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, “uomo d’onore” catanese. Scarcerati dopo qualche giorno, vennero assolti, sia pure a distanza di tre anni, con formula piena dall’imputazione.

E non mancano esempi di giornalisti che hanno sacrificato la propria vita per la ricerca della verità e di giornali ed editori che hanno saputo dare conto, senza perseguire interessi di parte, delle principali complessità e spinosità sociali, culturali, ambientali e storiche. Il dovere di cronaca, che consiste proprio in questo, fallisce e tradisce il suo obiettivo se quelle criticità vengono “manipolate” al fine di travisare i fatti o nascondere inconfessabili interessi di bottega.

Chiusa questa doverosa parentesi, torniamo al “bunkerino”.

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