Avevo sempre saputo che Palma era il più miserevole di tutti i paesi siciliani e quindi il più infelice d’Europa. Ora capivo che era anche il luogo dell’assurdo. In realtà io avevo preso infatti la via del mare per controllare quanto vero fosse quello che mi avevano detto; e cioè che una costa di inaudita bellezza, l’unica forse ancora incontaminata in tutta la Sicilia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Questo è forse l’angolo più bello di tutta la Sicilia, e quindi di tutta l’Italia. Selvaggio, fantastico, deserto. Nessuno di voi certamente lo conosce e. prima di insegnarvi la strada per arrivarci, è opportuno descriverlo come mi apparve in una pazza giornata di prima estate, sole abbagliante e vento gelido.
La montagna arriva letteralmente a strapiombo sul mare: dapprima sale per una serie di pendii d’erba e di ulivi, punteggiati da antichi casolari diroccati, forse di pastori erranti, poi s’inerpica verso una cima di pietra bianca, al di là della quale improvvisamente, prima con un terrazzo di macigni e poi subito con un precipizio, si spalanca il mare. L’immagine è perfetta: si spalanca il mare!
Negli ultimi venti metri, attraverso un viottolo sempre più ripido e stretto credete infatti di arrivare alla cima di un monte. oltre il quale vi appariranno certo altre valli e montagne deserte, e invece, superato quell’ultimo metro in mezzo alla boscaglia dei fichidindia, di colpo vi appare l’immensità marina. Proprio laggiù, quattrocento o cinquecento metri più in basso, una voragine azzurra che vi dà un attimo di sgomento, anche perché nello stesso istante vi investe furiosamente e vi fa sbattere il vento. Su quella cima altissima ed aguzza di pietra si erge un castello, così bianco, così violento e duro, che sembra cresciuto addirittura da quella pietra.
Le pareti bianche e lisce, senza una sola feritoia, una immensa torre quadrata che s’innalza da quelle mura con tre sole finestre nere. La sua stessa foggia, con le pareti verticali, senza un appiglio, costruite proprio sul ciglio dell’abisso marino, accentua la profondità che gli si apre dinnanzi, cioè quel breve declivio di erba e subito la montagna che affonda perpendicolarmente sul mare.
Laggiù un golfo, da una parte chiuso da questa rupe e, per tutto il suo arco, poi da una serie di dirupi di pietra. In fondo un chilometro di spiaggia candida e deserta, senza alcun segno di presenza umana. La rena. l’acqua, le alghe. gli scogli, la pietra, la montagna, Per arrivare a quell’intatto paradiso della natura, bisogna venire dal mare.
Vedevo tutto questo per la prima volta e fino ad un’ora prima non sapevo nemmeno che esistesse. Mi dette una sensazione irreale di vastità e di solitudine. La luce accecante del mezzogiorno, la violenza del vento, l’ombra delle nuvole che correva veloce sul mare, rendevano perfetta questa sensazione di bellezza.
Pareva davvero che quell’assurdo castello, senza porte e finestre, fosse una escrescenza fantastica della natura e che nessuno mai avesse potuto abitarvi dentro. Ebbi anche in quel momento un pensiero ignobile, e cioè che fosse veramente l’uomo la perturbazione del creato e istintivamente, pensai alla mirabile armonia di Venezia, una bellezza invece letteralmente inventata dalla fantasia umana. E tuttavia nessun ricordo di creazione dell’uomo, reggeva dinnanzi a quella immagine della montagna deserta, a precipizio sul golfo deserto.
Dieci chilometri alle mie spalle, oltre quella fila di piccole colline verdi, c’era Palma di Montechiaro, fetida, triste, grigia, infelice, con i tuguri scavati nel tufo, il groviglio delle tane di cemento, la favolosa cattedrale che cade a pezzi, il palazzo dei principi di Lampedusa adibito a cacatoio, le mosche, i cani, i vicoli che sprofondano da un quartiere all’altro con un rivolo di liquame, migliaia di bambini che vi corrono dentro.
Uscendo da Palma di Montechiaro avevo percorso alcuni chilometri di una strada sempre più ripida, che pareva insinuarsi fra una collina e l’altra, ed infine ero sbucato sulla costa: sulla sinistra una specie di brughiera, dominata da un torrione normanno, cupo e quadrato, a strapiombo sulla scogliera, e a destra Marina di Palma, una strada quasi divorata dal mare e una prospettiva di piccoli edifici squallidi, una fila di palme bruciate dalla salsedine, quindici o venti barche abbandonate sull’arenile.
Dall’altra parte la strada si inerpicava di nuovo verso le colline, diventava sempre più stretta e disagevole, proprio un sentiero intagliato nella pietra che ad un certo punto sprofondava in una valle, poi in un’altra, infine improvvisamente si slanciava ripidissimo verso la cima di quella montagna dominata dal castello. Smarrito il senso della direzione avevo creduto di tornare verso le montagne deserte dell’interno, ed invece ero arrivato a quell’incredibile baratro sul mare, così lontano da tutte le cose di Palma di Montechiaro, come fosse sull’altra faccia della terra.
Avevo sempre saputo che Palma era il più miserevole di tutti i paesi siciliani e quindi il più infelice d’Europa. Ora capivo che era anche il luogo dell’assurdo. In realtà io avevo preso infatti la via del mare per controllare quanto vero fosse quello che mi avevano detto; e cioè che una costa di inaudita bellezza, l’unica forse ancora incontaminata in tutta la Sicilia, sta per essere letteralmente devastata da una speculazione industriale, anzi peggio, inquinata e avvelenata da un nuovo gigantesco stabilimento petrolchimico per la cui ubicazione è stata scelta appunto la zona marina di Palma.
Rivisitando Palma di Montechiaro avevo trovato intatto lo squallore umano, la miseria profonda della popolazione, gli orrori sociali, le case vecchie sempre più putride, i rigagnoli fetidi in mezzo alle strade, le mosche, le malattie, la moltitudine spaventosa dei cani che ogni notte s’impadronisce del paese come di una giungla, e infine la nuova follia edilizia per la quale ogni sventurato emigrante che, risparmiati dieci o quindici milioni, aveva costruito la sua nuova casa dovunque ci fosse uno spazio libero, la parete di un canalone, il ciglio di una collinetta, uno strapiombo di pietra, un varco fra altre due abitazioni.
Ogni casa costruita identica all’altra, quattro pilastri gracili di cemento, i muri di pietra di tufo, una soletta di cemento come tetto, alcuni buchi come finestre, una porta d’ingresso e una scala. Né servizi igienici perché sotto non c’è fognatura, né acqua corrente poiché non esiste diramazione d’acquedotto, a volte nemmeno la corrente elettrica. Incredibilmente non c’è stato uno solo che abbia cercato di dare alla sua casa una foggia diversa, o più leggiadra, un tetto di tegole, un comignolo, un balcone di ferro battuto, un disegno, un attimo di fantasia, come se ognuna di queste migliaia di abitazioni fosse stata costruita in una fretta affannosa, realizzando solo gli elementi fondamentali di una casa e basta, i pilastri, la scala, la finestra, le pareti, il tetto. L’una casa aggrovigliata all’altra, l’una che schiaccia quella più bassa, le strade ridotte agli spazi minimi fra le pareti, letteralmente una distesa di tane emerse dal fango e dallo sterco.
Ebbene in questa Palma di Montechiaro resa ancora più tragica da questa dissipazione del lavoro e del sacrificio umano, qualcosa di ancora più tragico stava per accadere, così tragico da diventare infine buffo. Come per i poveri clown dei circhi equestri, che fanno ridere perché sono appunto nani, e deformi, e infelici, con le lacrime ferme a metà della guancia, e sono sciancati, innamorati e trafitti dalla cavallerizza, calpestati dagli elefanti, presi a scudisciate e infine vengono tramortiti da una martellata in testa.
È sempre un buffone che dà la martellata all’altro buffone. Siccome questo è il massimo dell’infelicità, la gente ride, i bambini leccano il gelato e ridono, le buone mamme, i buoni padri borghesi, isolati e protetti nella loro dignità e intelligenza, guardano il clown e ridono. È una regola comica.
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