Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


È stato anche grazie alla fedeltà di tutti alla causa comune se neppure una notizia, una indiscrezione uscì da quelle stanze. Il che ci ha permesso di rimanere concentrati sul lavoro senza dover rincorrere articoli di giornale o fare fronte a polemiche su quanto avveniva all’interno del “bunkerino”.

Non sempre è stato così in altre vicende italiane. A tutti i nostri collaboratori va riconosciuto il grandissimo merito di avere dato il meglio di sé, spesso in condizioni difficili, e supplendo, a costo di sacrifici personali, alle già allora congenite e ben note insufficienze di organici e strumenti di supporto.

Con questo non folto gruppo di persone si cercò di affrontare la mafia del clan dei “Corleonesi” che, nella Palermo degli anni tra fine Settanta e inizio Ottanta, mise termine all’egemonia delle vecchie famiglie palermitane di Cosa nostra imponendo la dittatura di Totò “’u curtu”.

Già allora, un coraggioso magistrato, Cesare Terranova, aveva fatto domanda per essere nominato consigliere istruttore. Era stato deputato e componente della Commissione Parlamentare Antimafia ed era intenzionato, una volta acquisito il nuovo incarico (che gli addetti ai lavori davano per certo), a sferrare un decisivo attacco a Cosa nostra. Il 25 settembre 1979, Cesare Terranova venne ucciso per impedirgli di assumere quell’incarico. Un delitto preventivo.

Ma sulla cosca dei “Corleonesi”, che aveva lasciato una lunga scia di sangue, si sarebbe potuto avere la meglio se si fosse indagato più approfonditamente in alcuni casi e se, da parte dello Stato, non si fosse sempre agito in una logica emergenziale, a partire da quello che è considerato il primo delitto eccellente, consumato il primo febbraio 1893, l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo, persona retta e onesta, già direttore generale del Banco di Sicilia ed ex sindaco di Palermo. Quel delitto provocò un acceso dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica. Anche se, inizialmente, nessuno osò fare nomi di mandanti ed esecutori di quel delitto. Da allora e, per quasi un secolo, la lotta alla mafia è stata quasi sempre un susseguirsi di risposte a feroci attentati, come l’insediamento della Commissione Antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli.

Nella borgata palermitana regno di Michele Greco, detto “il Papa”, capo della commissione provinciale di Cosa nostra, perirono la mattina del 30 giugno 1963 quattro uomini dell’Arma dei Carabinieri, due dell’Esercito italiano, e un sottufficiale del Corpo delle Guardie di P.S., dilaniati dall’esplosione di una carica di tritolo nascosta nel bagagliaio di una “Giulietta”, una delle prime autobombe impiegate da Cosa nostra.

Sì, perché altre auto imbottite di esplosivo erano state utilizzate nel corso della cosiddetta “prima guerra di mafia”. Addirittura un’altra auto, all’alba dello stesso 30 giugno 1963, era saltata in aria davanti il garage di Giovanni Di Peri, boss della “famiglia” di Villabate, provocando la morte del custode e di uno sfortunato passante.

Erano i tempi in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di Cosa nostra erano ancora frammentarie e parziali e, di conseguenza, era stata episodica e discontinua l’azione repressiva e punitiva dello Stato, e per di più contraddistinta da risultati deludenti: si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni Sessanta e Settanta, si erano chiusi i processi a carico di centinaia di mafiosi, celebrati a Bari e Catanzaro per legittima suspicione. Una risposta finalizzata quasi esclusivamente a individuare e colpire i responsabili di singole azioni criminose, viste in un’ottica parcellizzante e disancorata da una considerazione unitaria. Il fenomeno mafioso venne sottovalutato, forse inconsapevolmente ma colpevolmente, da coloro i quali avrebbero potuto e dovuto occuparsene, se è vero – come è vero – che ancora alla fine degli anni Settanta, anche da parte di rappresentanti delle istituzioni, si diceva che non ci fosse alcuna mafia da combattere, o che fosse una invenzione giornalistica per distogliere l’attenzione dei cittadini da chissà quali altri problemi o, addirittura, che fosse una voce messa in giro dal Partito Comunista Italiano per screditare la Democrazia Cristiana. Sull’autore di questa affermazione tornerò in seguito.

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