Da trentatré anni la prima cosa che faccio la mattina del primo gennaio è scorrere le ultime notizie alla ricerca di un numero che mi ossessiona: quello dei feriti dai botti di Capodanno. Tra morbosità e compassione leggo quante mani amputate, e dita e occhi persi, corpi ustionati, a volte morti. Il motivo di questa fissazione è che il primo gennaio 1990 in quel numero c’ero anche io.

Avevo 13 anni e sono stato uno dei 779 feriti dai botti con cui si è festeggiata la fine degli anni Ottanta, nonché uno dei trenta con prognosi superiore a quaranta giorni. Ci sono stati anche due morti, tra cui un bambino di 10 anni che aveva fatto come me. Mi era andata bene.

Ho sempre avuto l’attrazione per il fuoco: dall’osservazione ipnotizzata di caminetti accesi sono finito nel tunnel della droga pirotecnica, passando dalle candele magiche all’asilo alle miccette alle elementari, fino a razzi e petardi di ogni tipo alle medie. Non sapendo come procurarmi ordigni da sogno come le “cipolle” o il “pallone di Maradona” (1,5 kg di polvere da sparo), avevo deciso di fabbricarne uno da me.

A 13 anni non si è ancora formato il lobo frontale, il luogo del cervello da cui giunge quella vocina che, quando ti viene l’idea di fabbricare un ordigno rudimentale, ti sussurra: «È una grandissima cazzata».

Che il mio lobo non fosse sviluppato lo dimostrava già l’altra mia fissazione di quel periodo: essere un “paninaro”. Nessuna voce interiore che mi avesse sussurrato: «Anche questa è una grandissima cazzata». Oggi è una delle cose di cui più mi vergogno.

L’esplosione

I miei genitori, i cui lobi frontali erano giunti a piena maturazione, avevano arginato come potevano la mia degenerazione consumistica ma sul Moncler avevano ceduto. Verde.

Lo indossavo quella notte del 31 dicembre 1989 perché disponeva di svariate tasche abbastanza ampie da contenere l’arsenale di petardi e fuochi d’artificio che non vedevo l’ora di far esplodere alla mezzanotte.

L’onore di essere il primo, però, spettava al petardone che avevo confezionato con le mie mani nei giorni precedenti (gli ultimi della mia vita con le dieci dita intere), svuotando non so quanti petardi per raccoglierne la polvere in un tubo di plastica di una quindicina di centimetri che poi avevo fasciato con strati su strati di nastro adesivo da pacchi per aumentarne l’effetto deflagrante.

L’avessi avuto, il lobo frontale mi avrebbe fatto notare che non potevo considerare attendibile il tizio che mi aveva spiegato come procedere solo perché sapeva impennare con l’Ape Piaggio.

E infatti: coperto com’era da uno strato invisibile di polvere pirica, il petardone è esploso nell’istante in cui l’ho acceso. Il botto, devo dare atto all’Impennatore, era stato notevole. Non ho avvertito dolore e, per alcuni istanti, ignaro che quell’analgesia fosse merito dell’overdose di endorfina messa in circolo dal cervello, ho pensato che forse mi era andata bene.

Poi la forza di gravità ha fatto tornare la mano, sbalzata in alto dall’onda d’urto, all’altezza degli occhi, che hanno visto – la mano aperta come un quarto di bue di Bacon, fiotti di sangue tipo l’Oloferne decapitato di Gentileschi, colorata in stile Pollock, di rosso e nero con punte di bianco delle falangi esposte – e allora dalla gola è uscito un urlo che tuttora non riconosco.

È seguito un tour di due piccoli ospedali di paese concluso con corsa in ambulanza verso un grande policlinico dove sono stato operato d’urgenza.

“D’urgenza” vuol dire impossibilità di fare un’anestesia totale, motivo per cui, mentre i due chirurghi aprivano una tasca nell’avambraccio sinistro, e ci infilavano le falangi scarnificate della mano destra, fissandole con una cinquantina di punti di sutura (per tre settimane sono rimasto a braccia conserte come un ballerino russo di kazachok) io ero cosciente e, sebbene tenessi gli occhi chiusi, sentivo quel che mi veniva detto mentre ero sul lettino di una sala operatoria, abbastanza terrorizzato e sotto shock.

Erano variazioni sul tema «sei proprio un coglione…», seguite da «hai fatto una cazzata», «hai dato un dispiacere ai tuoi genitori» e così via: coglione, coglione, coglione. 

Il peso delle parole

L’operazione era andata bene, e dopo che la carne del braccio sinistro aveva aderito alle ossa delle falangi è seguito un secondo intervento per separare le braccia. Poi delle “medicazioni”, a giorni alterni, per eliminare, man mano che andavano in necrosi, gli strati di tessuto morto dalle due polpette di carne che adesso mi ritrovavo al posto dei polpastrelli: scarnificazione fatta necessariamente senza anestesia cosicché le mie urla segnalassero che il bisturi aveva raggiunto la carne viva.

Dovevano tenermi in quattro e anche in quel caso i medici (altri) mi intimavano: «Sta’ zitto! Non urlare, ché c’è tua madre che piange fuori dalla porta». Così per giorni, finché le polpette non si ridussero alle dimensioni di due polpastrelli diciamo normali.

Era primavera quando è finita: non avrei potuto suonare il piano come Glenn Gould e avrei avuto per sempre i peli sui polpastrelli ma, a parte questo, mi è andata molto bene e la mano ha conservato le funzionalità principali. E comunque, nel mio reparto ero quello messo meglio. È stata, come si dice, un’esperienza formativa.

Che mi ha cambiato: sono arrivate la paura di fare altre cazzate e, di conseguenza, il bisogno (l’illusione) di controllo. Mi ci sono voluti anni, invece, per prendere coscienza del senso di colpa maturato verso i miei genitori, che ha condizionato molte scelte di vita per via del bisogno di essere “il figlio perfetto” (altra illusione) che non dà più dispiaceri a mammà e papà.

L’analisi mi ha aiutato a capire quanto le parole dei medici abbiano lavorato dentro di me. Eppure sono il primo a pensare che avessero ragione: sono stato indubbiamente un coglione e hanno fatto bene a dirmelo. Il problema, semmai, sono le parole che non mi hanno detto, ovvero che a 13 anni non si sa niente; che capita di fare cazzate; che il lobo frontale eccetera eccetera. Insomma, di non farne un dramma. Io, invece, ne ho fatto un dramma e oggi, che di anni ne ho 46, quel tredicenne non sono ancora riuscito a perdonarlo del tutto.

Quando ripenso a quei medici lo faccio con gratitudine e rimpianto: un po’ mi hanno curato, un po’ mi hanno danneggiato, inconsapevolmente, ovvio. Le parole di un medico pesano. Mia madre ha iniziato a guarire da un tumore al seno nel momento in cui Umberto Veronesi, dopo averla visitata, le ha detto: «Lei non morirà di questo tumore».

Passione e compassione

Tra i modi più validi per aiutare i medici in questo senso ci sono i “gruppi Balint”, dal nome dello psicologo Michael Balint (1896-1970) che li aveva concepiti con l’obiettivo di formare i medici al rapporto con i pazienti. Purtroppo, non sono molto diffusi. Gabriella Caccamo, psicanalista membro dell’Aipa (Associazione italiana psicologi analisti) fa questo tipo di formazione fin dagli anni Ottanta: «È un metodo», mi spiega, «che aiuta il medico a capire che il primo farmaco che somministra è se stesso. Un medico deve sapere che anche sbuffare può avere delle conseguenze». 

Con le conseguenze ci sto facendo i conti e oggi sono “uno splendido quarantenne” con qualche disfunzione (chi non ne ha?). La passione per il fuoco mi è rimasta. La soddisfo con i caminetti e gli spettacoli pirotecnici. O con un bel libro, come quello, elegantissimo, di Pietro Grandi, Artificio (Marinonibooks, 2021). I botti, invece, li odio da allora, e oggi che ho due gatti, e vedo quanto ne sono terrorizzati, li odio ancora di più.

Sto provando ad avere con i miei genitori un rapporto non viziato da sensi di colpa e a rinunciare alle smanie di controllo o perfezione. Ogni mattino del primo gennaio cerco la notizia col numero di feriti dai botti (sempre meno: dagli 850 degli anni Novanta la media è scesa a 212 negli ultimi dieci anni), ma lo faccio con sempre meno morbosità e sempre più compassione, perché so cosa li aspetta. Insomma, se oggi sono quello che sono è anche in seguito a quel botto e a quei chirurghi. Certo, a volte ci penso, mi dico chissà come sarebbero andate le cose se. Ma la vita è fatta anche di botti e di chirurghi. Me lo ha spiegato il lobo frontale.

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