Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Tempo addietro, per protestare e reagire contro una non gradita decisione della direzione dello stabilimento, il sindaco di Gela emise un’ordinanza nella quale, ricordando che sull’area dove ora sorge il complesso industriale una volta passavano alcune trazzere di proprietà comunale, ordinava perentoriamente alla direzione della raffineria di restituirgli allo stato integro quelle trazzere.

Non occorre precisare che, passando quelle trazzere proprio dove ora si levano raffinerie e ciminiere, bisognerebbe distruggere queste ultime per restituire le trazzere al sindaco. Naturalmente è assurdo il solo pensiero che si possano radere al suolo impianti del valore di decine di miliardi per ripristinare alcune vecchie, fetide trazzere di campagna.

Ma la minaccia, condensata in una regolare ordinanza, cioè in un documento ufficiale, dà il senso dei limiti grotteschi ai quali si è arrivati. Il sindaco di Gela, autore dell’ordinanza, è il professore Quitedaura. È un medico specializzato in malattie tropicali, abita in una fantastica villa sul mare, alla quale però si arriva dopo mezzo chilometro di orribile sentiero sul quale le auto degli audaci rischiano dieci volte di capovolgersi. È un uomo di mezza età, asciutto, meditabondo, che si muove con estrema lentezza di gesti. Sembra continuamente disattento, ma in realtà egli in quel momento sta pensando, e le cose le dice adagio, parola dopo parola, fermandosi a guardare l’interlocutore per controllare che impressione gli facciano.

«Un tempo Gela era oppressa dal feudo - dice il sindaco -. Oggi essa è sovrastata da una impalcatura ancora più spietata della baronia. Dobbiamo difenderci in tutti i modi! Io sono solo il sindaco politico, quello voluto dai cittadini, ma chi comanda qui, voglio dire chi fa veramente il barone, è quello. Le torri, le fiamme, le ciminiere, quel gigante triste e appartato che non ci vuole nemmeno sfiorare e che ci sorveglia anche nel respiro. Quello è il padrone!» Una frase ben costruita, elegante.

Una frase costruita parola per parola attraverso mesi e mesi di rancore! C’è anche un avvocato che assiste alla discussione. Finora non ha parlato: si chiama Giuseppe Vitale, è consigliere provinciale, è giovane, pallido, piccolino, con cravatta, è gracile, silenzioso, un po’ malinconico, ha tutte le caratteristiche psicosomatiche dell’uomo politico di provincia che farà carriera (per anni ed anni racimolano pazientemente voti, accumulano nozioni, conoscenze, dati, amicizie, alleanze, rispetto e alla fine sono imbattibili). Ha assistito al discorso del sindaco con un silenzio attento, ogni parola che il sindaco ha dimenticato di dire, ogni cifra saltata, ogni argomento ignorato li ha infallibilmente annotati in testa, ne ha fatto un altro discorso lucido come una macchina.

La gigantesca potenza dell’Anic ha trovato nell’estremo Sud decine di piccoli, micidiali competitori come questo. Dice: «Intanto c’è lo smog.Voglio dire l’inquinamento atmosferico. Qui respiriamo veleno. Certo non possiamo eliminarlo con i servizi di spazzatura. A volte l’aria diventa irrespirabile per decine di chilometri, fino a Piazza Armerina. Il sole diventa bianco, malato. Poi c’è l’inquinamento marino, le acque sono limacciose, trasportano chiazze d’olio a perdita d’occhio, le spiagge ne diventano livide, i turisti sono scomparsi. All’Anic tutto questo non importa. A Milano tutti gli stabilimenti hanno dovuto allestire degli impianti di purificazione dell’atmosfera e delle acque di scarico. perché non qui a Gela? I contadini, i pecorai, i disoccupati, la povera gente, i nostri bambini, non sono creature umane? ....» Alza un pollice, ma proprio un pollice piccolo, gracile, di una mano abituata solo a girare migliaia, decine di migliaia di pagine di libri. «Primo!» commenta e leva anche l’indice: «Secondo: c’è questo gigante industriale e poi il vuoto. Non sappiamo nemmeno cosa produca questo gigante industriale, e nemmeno di cosa abbia bisogno. Anzi non ha bisogno di niente. Gli arriva tutto dal Nord, tutto pronto, imballato, catalogato. Un giorno si faranno vEnire anche le scatolette di carne e il latte in polvere. C’era uno stabilimento coraggioso, costruito alcuni anni or sono. Produceva fusti ed altri arnesi metallici. E’ fallito! E chi avrebbe dovuto dargli ordinazioni qui: i massari, i caprai? C’è un altro piccolo stabilimento di carpenteria metallica che continua coraggiosamente a lavorare. Riceve ordinazioni anche dalla Grecia. Bene, la sua merce deve spedirsela da Porto Empedocle o da Augusta».

Leva anche il medio e sventola lievemente le tre dita spalancate: «Terzo: in occasione della visita del ministro Pastore un altissimo dirigente industriale piemontese, compaesano giusto di Pastore, chiese pubblicamente al ministro se non fosse più opportuno che tutte le grandi iniziative industriali dello Stato, che impiegano cioè denaro pubblico, fossero ubicate soltanto al Nord, in Lombardia o nel vecchio, solido Piemonte dove esiste una sicura tradizione di lavoro e di adattamento, e quindi lo Stato potrebbe investire il suo denaro con la certezza di moltiplicare. Pastore disse che il governo vuole un’Italia in cui il lavoro e le possibilità di lavoro siano dovunque eguali, un’Italia finalmente una anche nel guadagno. Giusto! Ci furono gli applausi di tremila operai del Sud. Operai però, poiché i dirigenti sono tutti del Nord!»

Come si vede in questa lotta c’è una grande, una triste confusione di idee economiche, tecniche e politiche. Si ha la impressione penosa che la zuffa sia soltanto per le briciole e non si intenda più la tragica vastità del problema. I gelesi vogliono il porto dell’Eni che però è adatto solo ai carichi di prodotti petroliferi, e se fosse concesso all’uso indiscriminato di qualsiasi natante, potrebbe diventare teatro di una catastrofe. Vogliono che l’acqua del mare e l’aria che respirano sia pulita. Vorrebbero che l’industria comperasse da loro le cose che però ancora non sanno fabbricare o di cui l’industria non ha bisogno.

Fanno carico all’industria di tutte le loro ansie deluse, delle illusioni cadute, delle attese durate cento anni, della miseria dalla quale non riescono a liberarsi. Ritengono pateticamente l’industria un grande cuore di metallo che dovrebbe dare sangue ed ossigeno, cioè lavoro, pane, prosperità, ad ogni parte del vecchio organismo sociale moribondo e salvarlo. E poiché il vecchio organismo resta inerte e rantolante, si disperano e gridano al tradimento. In tutte le loro collere sbagliate c’è di vero però il loro dolore, l’angoscia di non vedere uno spiraglio di salvezza.

Non si rendono conto che l’Eni costruì quel porto di ferro soltanto per imbarcare il suo petrolio, e lo costruì adatto solo per questo, e che un altro molo per il carico delle merci deve invece costruirlo lo Stato e che diecimila braccianti sono disoccupati nel territorio non perché l’industria abbia rifiutato di assumerli ma perché la campagna li ha respinti, perché tutta la Piana di Gela è ancora una landa arida, senza un albero, senza un filo d’acqua, un canale di irrigazione, un frutteto, un allevamento di bestiame. Chi aveva denaro, invece di spenderlo nelle campagne ha preferito acquistare cinque o dieci appartamenti a Ragusa o Catania. Il rancore verso la grande industria è quindi irrazionale e confuso, ma al fondo di questa confusione c’è però una verità ferma ed inequivocabile: l’ansia di liberazione dalla miseria. È profondamente sbagliato attribuire ai criteri dell’Anic la miseria che resta: ma la miseria c’è.

La grande illusione d’amore è caduta. È rimasto soltanto rancore, rassegnazione, sconforto, indifferenza. Ancora una volta il Sud si sente tradito e reagisce secondo l’istinto della sua grande, maltrattata anima, gridando cioè di essere tradito perché tutti lo sappiano e possano compatirlo. Come tutti gli amanti infelici. La verità è che la Sicilia è stata ancora una volta tradita dalla stessa illusione e dagli antichi inganni. L’illusione. Noi siamo convinti di essere dei perseguitati, ed in gran parte è vero. Ma siamo anche convinti che spetti ora agli altri chiederci perdono, ridarci i soldi che ci truffarono, rifarci la casa, spolverarci i pantaloni e dare la laurea in ingegneria ai nostri figli; e questo invece non accadrà mai, per il semplice fatto che agli altri non interessa che accada.

Un’illusione fu il credere che l’arrivo di una sola grande industria potesse modificare un secolare destino di vivere: in effetti un’industria non dà mai niente in regalo. Prende semmai, prende quello che le serve e non più. L’Anic meno degli altri, poiché l’Anic già possiede tutto quello che le serve e non ha certo fra i suoi obiettivi principali quello della beneficenza. L’industria è una macchina arida, puntuale, infinitamente più egoista di qualsiasi essere umano; l’industria non piange, non ride, non ha pietà, non ha amici. Produce, e basta.

Qui a Gela le servivano, poiché la legge regionale glielo imponeva, solo tremila individui, che sapessero leggere e scrivere, fare di conto e manovrare leve e congegni. Se li è presi. E poiché a Gela non c’era ancora nemmeno una scuola di qualificazione che li avesse educati al lavoro, se li è presi dovunque, a Caltanisetta, Catania, Palermo, persino a Priolo. E quei tremila li ha fatti passabilmente felici. Tutti gli altri, i centomila della plaga di Gela, non è che li odi, semplicemente non le servono.

perché l’insediamento dell’Anic potesse veramente rivoluzionare tutta la vita del territorio e redimerlo, come era nella disperata illusione di tutti, sarebbe stato necessario che accanto a quello stabilimento, anzi propiziate da esso, fossero nate altre industrie, l’una per occupare (e redimere) altri duecento esseri umani, un’altra capace di assorbirne altri cinquecento, un’altra ottocento o mille. E qui, detto dell’illusione, il discorso si collega automaticamente all’errore di valutazione.

perché altre industrie sarebbero dovute vEnire ad insediarsi qui? In fondo all’Europa, in una delle terre più disastrate dell’Isola, dove non c’era acqua per azionare le macchine, proteggerle, lavarle, refrigerarle, dove non ci sono porti per spedire la merce o per far arrivare pezzi di ricambio, dove non esistono autostrade per inviare i prodotti sugli altri mercati siciliani, dove la ferrovia è ad un solo binario e per arrivare a Catania o Palermo ci vuole un giorno di treno, dove non ci sono nemmeno vagoni sufficienti al trasporto della merce, dove mancano le cose più elementari alla vita di un’industria ed al suo sviluppo?

L’Anic ha un matematico cuore di metallo, è un’ infallibile macchina che non regala niente a nessuno, ha tutti i torti della logica anima industriale, ma non toccava certo a lei costruire le dighe e gli acquedotti di uso industriale, le grandi arterie di comunicazione, le scuole di qualificazione, i moli per i porti di carico, le centrali elettriche, tutte le cose veramente essenziali al progresso civile. Senza le quali avremo magari stabilimenti da fantascienza, villaggi residenziali mirabili, ma saranno fenomEni isolati e addirittura tristi per il confronto che impongono fra coloro che se li godono e tutti gli altri, gli esclusi, che sono rimasti inguaribilmente infelici.

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