Il palazzo dei Lampedusa, famoso in tutto il mondo per la descrizione ne «Il Gattopardo». La popolazione ha deciso di adibirlo ufficialmente a «cacatoio». Oltretutto per un cafone c’è la soddisfazione di esercitare un diritto naturale e quindi civile, laddove si posarono piedi di principesse e viceregine
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Alcuni episodi sembrano le battute di un clown, cioè i giusti intermezzi comici che servono a mettere più in risalto la drammaticità del resto. La scalinata della Matrice, un’autentica opera d’arte, non si è potuta rifare perché la sovrintendenza ai monumenti esige che sia ricostruita con la stessa pietra di un tempo. Ma cave di quella pietra non ce ne sono più. Lo stanziamento si è perduto.
Il palazzo dei Lampedusa, famoso in tutto il mondo per la descrizione ne «Il Gattopardo», non si è potuto restaurare poiché lo studio tecnico, poi la lentezza burocratica, infine la totale inerzia regionale, hanno essiccato il finanziamento. Ragionevolmente, considerata la ubicazione preminente e insieme discreta, la popolazione ha deciso di adibirlo ufficialmente a «cacatoio». Il poveraccio che non ha cesso in casa, né acqua corrente ha la possibilità di appartarsi e, in quei minuti, godersi anche il panorama della grande valle.
Oltretutto per un cafone, c’è la soddisfazione di esercitare un diritto naturale e quindi civile, laddove si posarono piedi di principesse e viceregine. Infine, con gli spiccioli rimasti di quella legge, hanno costruito proprio al centro della città un bellissimo gabinetto pubblico, segno dei tempi nuovi e della resurrezione politica del paese.
Tutto di maiolica, di marmo, con un bell’ingresso, fastoso da supermercato. Non ci hanno fatto le tubature dell’acqua sicché, tranne pochissimi audaci (che non avevano tempo di correre fino al palazzo del Gattopardo), nessuno ha potuto usufruirne mai. Sulla facciata qualcuno ha tracciato una insegna ufficiale «Club dei topi felici».
Improvvisamente mentre quel vicesindaco triste e sorridente raccontava di Palma di Montechiaro ebbi la certezza che niente era in realtà cambiato nel paese, né la disperazione, né il destino dei più, né il fallimento umano di migliaia di famiglie, ma in più c’era una cosa nuova e irridente, cioè una sorta di buffoneria delle cose, un senso inconscio dell’humour.
In tutti gli angoli oscuri della tragedia c’era immobile una risata, pronta a scoppiare non appena tu cercavi di levare la crosta delle cose. Sentite! La popolazione di Palma è cresciuta a quasi trentuno mila abitanti, di cui venticinquemila residenti e seimila emigranti. Costoro sono la parte più valida e giovane della popolazione, quasi tutti sono nel nord dell’Europa e soprattutto in Germania.
Seimila uomini scomparsi e quasi seimila mogli che sono rimaste invece a Palma di Montechiaro in attesa. Le vedove bianche. Può sembrare il più valido espediente anticoncezionale per impedire che questa piccola popolazione continui a crescere freneticamente, fuori da tutte le regole e da tutte le possibilità di vita. E invece Palma di Montechiaro è sempre il paese della più alta mortalità infantile e nello stesso tempo della più alta prolificità in campo europeo.
Accade infatti che l’emigrante una volta l’anno torni al paese, per Pasqua, o Natale, o Ferragosto, per rivedere la famiglia e controllare che i soldini fatti a sudore di sangue siano stati bene spesi, per cominciare a costruire una casetta, per il frigorifero, per mandare il figlio a scuola. In quelle due settimane di rimpatrio l’emigrante e la vedova bianca praticamente si avventano l’uno nelle braccia dell’altro, ciecamente, un amore da disperati, un bisogno della natura, soprattutto per la donna, come la sete, come la fame.
E implacabilmente, nell’ottanta per cento dei casi, la donna, tornando quasi subito vedova bianca, rimane incinta. Cinque, sei, sette figli così in altrettanti anni, creature che crescono senza conoscere il padre, senza sapere che faccia abbia, il suo tono di voce, la sua dolcezza, la sua collera.
Un giorno, quando saranno uomini, si vedranno dinnanzi un altro uomo quasi vecchio, che stenta a parlare persino il dialetto, che ha perduto dei suoi figli la cosa più preziosa, gli anni della fanciullezza, dell’adolescenza. E accade di più: che l’emigrante, sopraffatto dalla solitudine e dalla disperazione di un impossibile ritorno, fatalmente si trovi un’altra donna in Germania: non ha nemmeno il coraggio di confessare d’essere già catastroficamente sposato, già, in quella fantastica, quasi irreale Palma di Montechiaro, e quindi procrea altri figli con la donna tedesca, o francese, o belga.
La prolificità della razza striscia sordidamente per tutta l’Europa. Crea farse e tragedie. È venuta qui a Palma una ragazza bionda, con un bambinello addosso: piangeva, cercava Pasquale che era partito da Colonia e non era tornato più, che non gli fosse accaduto qualcosa, che non fosse morto, si fosse ammalato? La accompagnarono fino alla casa e là c’era Pasquale, sbracato dinnanzi all’uscio, e accanto a lui una donna nera, pallida, triste, e attorno a loro sei ragazzini neri, pallidi, sporchi e allegri.
Se n’era tornato per sempre: dieci anni di Germania gli avevano consentito di costruirsi una casetta a Palma di Montechiaro, sulle pendici della collina, non aveva nemmeno chiesto la licenza edilizia, non aveva nemmeno presentato un progetto, quattro fili di cemento armato, alcune pareti di tufo bianco, un solaio di cemento, il gabinetto che scola in mezzo alla strada, l’acqua si va a prenderla alla fontana poiché, essendo l’edificio abusivo, il Comune non lo riconosce.
Andate a spiegare a uno sventurato il quale, per dieci anni, ha lavorato in fondo a una miniera tedesca, privandosi anche di un boccale di birra o di un pacchetto di sigarette, che poi con tutto quel suo sudore di sangue, quelle migliaia di giorni di solitudine e disperazione, e quel miserabile denaro che ha guadagnato, non ha nemmeno il diritto di costruirsi una casetta su un dirupo, per metterci al riparo la sua famiglia.
Ecco appunto, nella tragedia. un’altra grande risata, la più torva. Migliaia di emigranti, risparmiando anche sul cibo e sul vestiario, rassegnandosi a risiedere per anni nei dormitori lager tedeschi, sono riusciti a risparmiare dieci, quindici milioni, e fanaticamente li hanno subito impiegati per costruirsi una casa comunque a Palma di Montechiaro, per consentire almeno alla moglie ed ai figli di uscire dai tuguri dove erano costretti a vivere talvolta insieme alle bestie.
Che ne sapevano essi del piano di fabbricazione che aveva stabilito le zone dove le costruzioni erano possibili? Che ne sapevano della legge Mancini che sancisce per i trasgressori penalità pari al valore dell’immobile realizzato? Che ne sapevano della legge Bucalossi che impone la demolizione dell’edificio abusivo entro sessanta giorni, oppure dà al Comune facoltà di appropriarsene, senza nemmeno una lira di rimborso?
Migliaia di emigranti hanno praticamente destinato il sacrificio della loro vita per costruire una casa che può essere distrutta con una semplice firma del sindaco e per la quale l’infelice può essere condannato a pagare altrettanti milioni di quanti ne spese per costruirla.
Altri dieci anni di disperazione in fondo a una miniera per pagare una condanna e per non avere niente. Così Palma di Montechiaro, accanto o sopra i vecchi tuguri di tufo, ha visto sovrapporsi tuguri di cemento miserabili, senza forma, senza intonaco, senza balconi, senza tegole, senza gabinetti, fogne, fosse perdenti, senza acqua, spesso senza nemmeno luce. Sull’antico termitaio schifoso, un nuovo groviglio di tane per la bestia umana.
E come fa la pubblica autorità a espropriarle, a ordinarne la demolizione, a condannare le bestie umane? Spiegare loro: non potevate farlo, considerate perduti dieci o quindici anni della vostra vita, riportate i vostri figli dentro le grotte e voi riprendete la strada della solitudine! L’indomani sarebbero tutti per le strade con le falci, i fucili, le roncole. Li scannerebbero, li farebbero a pezzi. Lo stesso piano di fabbricazione che avrebbe potuto almeno fornire uno strumento per impedire una devastazione definitiva e per ottenere i finanziamenti utili alle fogne ed all’acquedotto per le nuove costruzioni, è rimasto per anni paralizzato presso la commissione provinciale di controllo.
C’erano errori, distorsioni, sbagli, ma soprattutto c’erano gli interessi di coloro i quali volevano un piano di fabbricazione che valorizzasse alcune aree edilizie. Nel frattempo tutte le aree che dovevano essere destinate ad opere pubbliche, le scuole, l’ospedale, il giardino pubblico, gli uffici, sono state letteralmente e definitivamente distrutte. Colonne di formiche umane che andavano e tornavano da tutta Europa hanno costruito uno schifoso termitaio che nessuna forza umana potrà più distruggere. Appunto, la tragedia che è diventata farsa!
C’era una popolazione infelice che, nell’assenza del potere pubblico, aveva cercato, con anni di sacrificio e solitudine, di costruirsi almeno una apparenza, anzi una speranza di vita civile: e la vacuità del potere politico, la sua strafottenza, la sua capacità di corruttibilità e corruzione, la sua inerzia, spesso la sua imbecillità, hanno distrutto persino questa ultima speranza che migliaia di esseri umani pagavano sulla propria pelle e sul proprio dolore.
E in questo covo dell’estremo sud, dove si incontrano anche piccole donne straniere, bionde e spaurite, che hanno seguito fin quaggiù i loro uomini, dove la residenza dei principi è diventata il cesso solenne di un quartiere, dove non c’era spazio per ventimila esseri umani e ora ce ne sono trentamila, in questo angolo infame della Nazione sono cresciuti e si sono moltiplicati con una allucinante progressione anche i cani.
Tutti bastardi, di una razza cioè che non ha eguali nel mondo e nella quale confluiscono umori, fame, ferocia, aggressività, pazienza, devozione, istinto di tutte le altre razze canine. Perché qui a Palma di Montechiaro e non in qualsiasi altro paese? Sembra la domanda che rivolgemmo agli abitanti di Corleone; perché qui la gente si uccide più che in qualsiasi altro paese d’Europa?
Il gentile vicesindaco (professore di lingue), socialista umanitario, al quale per frenarne gli impeti sociali e morali hanno già bruciato la casa e fatto saltare in aria la macchina, ci regala il suo ultimo patetico ma indomito sorriso da donchisciotte: «Qui a Palma di Montechiaro, il numero dei cani rappresenta il grado di dignità del contadino. Più cani possiede e più egli è un uomo che vale.
Così ognuno alleva quelli che può, la mattina all’alba se li porta in campagna per compagnia, per dimostrazione di prestigio, per difesa personale. La sera il contadino torna in paese ma non può tenersi la muta in casa ed i cani restano perciò liberi. Vagano a migliaia e migliaia dovunque, si acquattano dove possono, raschiano le immondizie, si azzannano, si accoppiano, spesso si avventano in sanguinose risse, divorano i resti, procreano un’infinità di altri cani, sempre più affamati, sempre più bastardi. Nella notte i cani sono i padroni di Palma. Un viandante solitario e disarmato potrebbe essere fatto a pezzi».
E non c’è rimedio? Lo chiediamo, qua e là, e ne abbiamo solo sorrisi tristi come quello del vicesindaco. A tutto c’è rimedio! Ho l’impressione che qui, a Palma di Montechiaro, io ho creduto finora soltanto di capire e che invece ci sono altre verità, più vaste, forse più terribili. Ci resto!
Pippo Fava
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