Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Alcuni anni or sono, in un grande paese del palermitano, il segretario comunale di un grosso partito politico rifiutò la tessera di iscrizione ad un gruppo di persone molto potenti che ne avevano fatto richiesta.

Era accaduto che il partito, nel quale fino allora quel gruppo di persone aveva militato, aveva subito alcuni clamorosi rovesci elettorali che ne avevano limitato in modo determinante l’influenza nel campo dei pubblici affari. Accade spesso a molte persone per bene che, nel momento del naufragio del partito (per il quale hanno pur speso comizi, commozioni, collere, discorsi) si sentano presi da rimorsi ideali e cerchino garbatamente sistemazione in un nuovo partito che continui a garantire posti, prebende e prestigio che stanno per smarrire.

Se guardate le cronache comunali, regionali o nazionali, la vita politica pullula di queste persone assalite da repentine crisi di coscienza. Così accadde anche a quel gruppetto di persone che, franato alle loro spalle l’apparato politico che dava loro riguardo e potenza, cercavano autoritariamente poltrone presso un altro partito più solido. Erano mafiosi.

In un centro di provincia la potenza mafiosa non può essere dissociata dalla rispettabilità e dalla influenza politica, poiché è questa che consente la stabilità della potenza, la manovrabilità dei fiumi di denaro che circolano da tutte le direzioni, gli stipendi da assegnare, gli incarichi di sottogoverno, l’erogazione d’acqua nelle campagne, le informazioni sui lavori pubblici e la destinazione degli stessi, le raccomandazioni ai concorsi, la dignità civica. La dignità civica è importante.

Genco Russo era consigliere ed assessore comunale, seguiva la processione del Santo patrono, reggeva l’asta del baldacchino del Santissimo Sacramento, poteva camminare accanto al maresciallo dei carabinieri.

Ordunque quei mafiosi fecero richiesta di tesseramento e il segretario politico comunale di quel partito oppose un diniego. Per due motivi: perchè erano notoriamente mafiosi e perché, essendo mafiosi, in un battibaleno gli avrebbero soffiato carica, poltrona e autorità in seno al partito stesso.

Fu un ingenuo oltretutto. Infatti le domande di iscrizione furono ben presto accolte in sede provinciale: quei mafiosi rappresentavano un «carico» di tre o quattromila voti potenziali, disposti a concedersi al migliore offerente, al partito che avesse offerto loro migliori garanzie. Chi avrebbe potuto rifiutarli? In poche settimane i mafiosi, dopo un rapido lavorio di convincimento in seno agli iscritti, ebbero la maggioranza ed alla prima occasione misero il vecchio segretario politico alla porta.

Costui non solo era ingenuo, ma anche testardo; non si rassegnò, cominciò a lottare, a denunciare prepotenze alla segreteria provinciale, a ribellarsi, a creare ostacoli, a sobillare la pubblica opinione, a reclamare nuove elezioni, a pretendere l’invio di una commissione di parlamentari del suo partito per un’inchiesta.

A valutarlo ora, da lontano nel tempo, quel patetico personaggio dà l’impressione di un innocuo omino che si agita furiosamente, e più si agita, e più la terra gli si scava sotto i piedi, una buca sempre più profonda, umida, lugubre. Ad un certo momento qualcuno gli dovette dare un paterno ultimatum e fu peggio, poiché il vecchio segretario si rivolse addirittura a Roma, scrisse una lunga lettera al personaggio più potente del suo partito dicendogli presso a poco: il potere mi è stato sottratto dai mafiosi i quali, se io continuerò la lotta, mi uccideranno! Non ricevette risposta e scrisse una nuova lettera, anzi un memoriale; rifece tutta la storia di tutti gli ultimi mesi, di tutti i personaggi, di tutte le prepotenze, e concluse: sono sicuro che mi uccideranno se non intervenite a salvarmi! Nessuno gli rispose, ed egli scrisse per la terza volta, più brevemente, più pateticamente: mi uccideranno entro questo mese! Si sentiva la morte addosso.

Andava in giro con un vecchio abito, sotto il quale celava una grossa pistola ed un parabellum tedesco, per potere subito sparare il maggior numero di proiettili possibile. Una sera usciva, dal circolo o da casa, assieme a suo fratello che lo scortava ovunque per proteggergli le spalle ed avvertirlo del pericolo.

Stava attraversando la piazza centrale del paese quando improvvisamente tutte le luci del paese si spensero, tutta la cittadina piombò nel buio, e da quattro direzioni diverse, dai quattro angoli della piazza cominciarono a sparare, con fucili mitragliatori e con i fucili a lupara. Gli abitanti del paese, chiusi nelle loro case, o immobili in mezzo alle strade oscure, sentivano nel buio quei colpi che crepitavano; tutti sentivano: gli uomini, le donne, i bambini svegliati nei loro letti.

La morte di quei due uomini, il vecchio segretario e il fratello, durò dieci secondi, poi la luce cominciò lentamente a tornare in tutto il paese, ma non c’era più una sola persona per istrada, un solo passante, un solo spiraglio ai balconi. In mezzo alla piazza quei due corpi con le braccia spalancate, trapunti da una miriade di piccoli fori sanguinosi. E’ una storia di mafia perfetta.

Se i mafiosi di Ciaculli non avessero abbandonato su una trazzera quella tragica Giulietta carica di tritolo e l’esplosione della vettura non avesse fatto strage di otto carabinieri e militari, la mafia sarebbe probabilmente ancora così.

Quella strage fece traballare lo stato politico italiano dinnanzi all’opinione pubblica mondiale, gettò una ondata di sanguinosa vergogna addosso a cinque milioni di siciliani; e fu una necessità ridare alla forza pubblica le armi materiali e giuridiche per potere finalmente lottare. Facciamo il punto sull’antimafia con il questore Inturrisi: «Nella provincia di Palermo si verificavano ottanta omicidi l’anno. Un massacro! La gente veniva uccisa nelle campagne o al centro della città. Nel cuore di Palermo un uomo scese da un filobus e, fatti cinque metri, stramazzò per una scarica di lupara in faccia.

C’erano cento passeggeri su quel filobus: nessuno disse poi di aver visto chi aveva sparato! Fino all’ottobre 1966 invece ci sono stati soltanto cinque omicidi, e nessuno per movente mafioso. Un vecchio, Calogero Raffa, ha ucciso a rasoiate la sorella Angelina di 66 anni poiché gli diffamava la moglie.

Un caso di arteriosclerosi senile. Il pastore Calogero Giaconia, ha sgozzato a coltellate il bracciante Giuseppe Faillaci. Nessun movente. Il contadino Girolamo Mondello ha freddato con due schioppettate il giovane contadino Vincenzo Randazzo. Aveva visto un’ombra vicino al casolare ed aveva sparato credendolo un ladro: la vittima era il fidanzato di sua figlia. Il bracciante Pasquale Di Francesco ha ucciso con due fucilate al petto l’agricoltore Basilio Barone con cui aveva violentemente litigato per questioni di interesse. Crimini fortuiti, banali episodi.

Negli stessi undici mesi, e tenendo conto del rapporto di popolazione, nelle province di Milano e Torino è stato registrato un numero di omicidi quasi doppio rispetto al territorio palermitano. A Catania ci sono stati dodici omicidi. A Bari diciotto. Palermo è diventata di colpo la città più tranquilla di tutta la nazione!» Il questore Francesco Inturrisi ci parla con i registri alla mano. È affabile, piccolo di statura, con gli occhiali da burocrate, un volto rotondo e mite.

Se non riesce a trovare un dato o un nome, lo cerca anche per un quarto d’ora in centinaia di pagine, cerca anche le parole adatte del discorso. Appare pieno di laboriosità, di scrupolo, di pazienza. È siciliano di Solarino, quasi alle porte di Siracusa: «La provincia babba!» lui dice e fa un impercettibile ghigno di ironia, una risatina soddisfatta. Appare uno di quei siciliani che passano gran parte della loro vita sui libri, che sono sempre puntuali, discreti, incapaci di un gesto di maleducazione, che dicono o fanno solo le cose di cui sono assolutamente sicuri e quelle cose però dicono o fanno con assoluta precisione.

In città lo chiamano «lo sceriffo che venne dall’Est», ma egli probabilmente non lo sa. E del resto non gli si addice, è una definizione che potrebbe andare per il vice questore Mangano, che viene anch’egli dall’Oriente della Sicilia, da Riposto, ed è gigantesco, ha la barba grigia dei pionieri, sfonda con una spallata l’uscio dietro il quale il mafioso si è asserragliato, e non sorride mai.

Ma il questore Inturrisi no! È piccolo di statura, laborioso, pieno di sorridente puntiglio, legge i classici della poesia, organizza, dà ordini, valuta, dispone. Sul suo tavolo ha solo una matita per prendere appunti ed un grosso microfono con il quale può mettersi istantaneamente in contatto con qualsiasi radiovettura che in quel momento pattugli la città. Spiega: «Palermo è divisa in dieci zone, ognuna delle quali è pattugliata notte e giorno da sei “radiopantere".

Il percorso di queste vetture ed i loro spostamenti vengono continuamente seguiti su un grande quadro elettronico, grazie alle indicazioni del quale siamo in condizioni di far affluire sul luogo di un delitto venti o trenta autovetture in meno di un minuto. Altri quattro equipaggi radiocomandati e venti agenti motociclisti sono inoltre a disposizione del posto di comando per l’intervento immediato. L’organizzazione dei carabinieri è identica. In questo momento la macchina della polizia di Palermo viene considerata la più efficiente di tutta Italia e probabilmente di tutta Europa. Costituisce un modello per qualsiasi altra grande città del continente.

Un uomo che rubi, o uccida, sarebbe circondato nel raggio di mezzo chilometro. È difficile sfuggire ad un cerchio di uomini armati che da cinquecento metri avanzino contemporaneamente a distanza di pochi minuti da un delitto. Ma qui solo un pazzo potrebbe uccidere. E i mafiosi non sono pazzi. I mafiosi sono incredibilmente lucidi, ragionevoli, astuti, colpiscono solo quando hanno una sicurezza quasi matematica della loro incolumità.

Altrimenti aspettano, pagano le tasse, passeggiano, lavorano, sono umili, educati. La maggior parte di loro, i più efferati, è stata eliminata dalla circolazione. Quelli che restano non potreste distinguerli da qualsiasi altro cittadino. Ma noi sappiamo chi sono. Basta un errore, un’intemperanza per cancellarli. La gente lo sa.

Questo è importante!». L’arma più efficace non è costituita da quelle cento autoradio che pattugliano la città, che controllano giorno e notte ogni quartiere, ogni strada di Palermo, e nemmeno da quelle migliaia di uomini pronti ad intervenire. È invece un articolo di legge, quattro parole stampate sulla carta e la buona volontà di farle valere. Il confino! Noi italiani abbiamo dei concetti assoluti della vita, che la vita però tradisce continuamente. E il bello è che lo sappiamo.

Da vent’anni viviamo la democrazia, di essa abbiamo un criterio indeformabile, riteniamo cioè che sia l’intransigente libertà di tutti, in qualsiasi momento. In realtà accade quasi sempre il contrario, e lo sappiamo, ma facciamo finta di non accorgercene. In nome della democrazia che non può consentire ufficialmente la menoma violazione della libertà del cittadino, abbiamo disapplicato per decenni l’istituto giuridico del confino.

Per decenni si sono registrati nel Sud omicidi, rapine, massacri. sovvertimenti, corruzioni, ed era chiaro a tutti chi fossero gli autori. C’erano uomini mafiosi che facevano uccidere, rubare, saccheggiare, corrompere e tutti se li indicavano a dito.

Era una convinzione schiacciante, ma non c’erano le prove. In nome di una democrazia intesa in senso apostolico abbiamo avallato politicamente la mafia. Le duemila persone uccise per crimini mafiosi nel dopoguerra (molti erano anche bambini) e le decine di miliardi razziati, costituiscono il prezzo che tutti hanno pagato. Solo la strage di Ciaculli, la lama mafiosa che penetra finalmente nelle carni vive dello Stato, dinnanzi a tutto il mondo, ha posto termine a questa patetica follia (falsa, peraltro, poiché determinata solo da un inganno morale di cui tutti erano convinti).

Dalla strage di Ciaculli si cominciò ad applicare l’istituto del confino. Ci siamo solo adattati poiché fra l’altro abbiamo paura anche delle parole, lo chiamiamo affabilmente: soggiorno obbligato. Il questore Inturrisi fa i conti con molto scrupolo e addiziona: «Fino ad oggi abbiamo chiesto circa tredicimila diffide nei confronti di individui socialmente pericolosi, e duemila provvedimenti di soggiorno obbligato.

La magistratura ci ha concesso duemila diffide ed ha autorizzato circa novecento soggiorni obbligati. L’individuo viene prelevato con molta educazione e trasferito in un piccolo paese del Veneto, del Piemonte. Ogni sera al tramonto deve presentarsi al maresciallo dei carabinieri: Signor maresciallo, io sono qua! Non può uscire di notte, non può allontanarsi dal paese.

È alloggiato con decenza, può curare i suoi interessi, ricevere visite, ammirare il panorama, leggere, andare al cinema. È libero, ma qui non ci deve tornare. Per potente che possa essere un mafioso, è un uomo finito. La gente ragiona: se lo Stato può in qualsiasi momento relegare il mafioso a duemila chilometri di distanza, segno che lo Stato è più potente. Il primo mafioso che mi fa soperchieria, lo denunzio».

Uno dei primi ad emigrare verso il soggiorno obbligato fu Genco Russo. A Lovere, il paesetto lacustre dove venne relegato, nessuno avrebbe potuto riconoscere colui che era stato giudicato il capo della mafia in quel macilento vecchietto, quasi cieco, silenzioso, con un grande cappello umbertino il quale stava per ore seduto in faccia al lago e pateticamente ogni sera andava a bussare alla porta della caserma. Il questore Inturrisi chiude la copertina del registro, fa un lieve sorriso, un educato sospiro di soddisfazione, e con cura liscia la copertina. «La potenza del mafioso è il suo prestigio. E il prestigio gli deriva dall’ incolumità. La gente si arrende alla sua potenza poiché la ritiene invulnerabile.

La gente pensa: è inutile che io mi opponga, che io sia onesto e coraggioso nella denuncia o nella testimonianza. Rischio la morte o la rovina per niente. Quest’uomo è troppo forte, sarà sempre assolto, poiché tutti testimonieranno per lui, è amico di deputati potenti, è ricco, ha uomini che potrebbero fucilarmi o bruciarmi la casa al solo schioccare di un pollice. Mi arrendo. La gente ragionava così. Ma il confino spoglia di colpo il mafioso del suo prestigio.

Un mafioso spogliato del suo prestigio è niente! Zero! Sia chiaro che, una volta deciso il provvedimento di soggiorno obbligato nei confronti di un individuo che potrebbe turbare la morale o l’ordine pubblico, noi procediamo immediatamente al suo arresto, e chiediamo quindi alla magistratura, insieme al provvedimento di confino, anche la custodia preventiva del soggetto! Il questore Inturrisi sembra riflettere. Ha un lieve sospiro di stanchezza, di malinconia.

Dice: «No, la mafia non è vinta! La causa vera della mafia voglio dire. L’orgoglio dell’individuo, il suo sprezzante e cupo individualismo, la superstizione dell’onorabilità, la paura, talvolta l’impotenza degli onesti, la corruzione del pubblico ufficiale, l’avidità elettorale: ogni cosa contribuisce a fortificare il criminale mafioso, a creare il personaggio, ed attorno al personaggio una rete invisibile, incredibile di complicità. Ma il mafioso per essere tale ha bisogno di uccidere, poiché quella è la sua definitiva risorsa: la soppressione fisica del concorrente. E per uccidere ha bisogno di chi lo faccia per lui, poiché il mafioso non uccide mai con la sua mano. Il mafioso autentico è un uomo formalmente ineccepibile, ha bisogno di essere così poiché deve apparire in pubblico con uomini rappresentativi, frequentare le cerimonie ufficiali, deve essere gentile, corretto, educato; rispetta tutte le amicizie altolocate, manda gli auguri per le sante feste, il regalo per il compleanno, l’omaggio alle signore. fa telegrammi di condoglianze a deputati e sindaci, invita a cena, offre, paga, lusinga, cede il passo. Un uomo così ha orrore del sangue, non può uccidere mai di persona. Fra l’altro al momento in cui si commette l’assassinio egli ha da essere altrove con persone insospettabili che possano giurare per lui. Egli ha bisogno di chi uccida per conto suo. Non è difficile trovare un uomo che sia disposto a diventare un assassino per conto di un altro. Anzi è facile, finché c’è la miseria che acceca, che spesso dà al miserabile l’illusione morale di essere costretto a scegliere fra la vita sua e quella di un altro...».

No, in effetti la mafia non è vinta. È impaurita, cova la sua paura, il suo terribile odio, la sua avidità, in silenzio. Non può fare altro. Attende. Vive in quel prestigio che lo Stato, per indolenza, per pavidità, non è riuscito a strapparle. Il crollo della montagna ad Agrigento ha svelato che, tre anni dopo Ciaculli, nella provincia più miserabile d’Italia, c’era ancora l’orgia della mafia.

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