Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


Non era ancora questo il contesto storico in cui ho mosso i primi passi quando, dopo un breve periodo di uditorato a Palermo, sono stato trasferito al Tribunale di Milano e mi sono state assegnate dal Presidente Luigi Bianchi D’Espinosa le funzioni di giudice istruttore penale. Che colpo di fortuna! Da non crederci. Svolgere, sin dall’inizio della carriera, il lavoro che avevo sempre sognato. In seguito non sarebbe stato più possibile coprire quelle funzioni appena entrati in carriera. Quello di giudice istruttore era il mio lavoro, nel senso che era ciò che desideravo fare quando studiavo, chino sui libri.

Ho cominciato nella fredda, umida e nebbiosa Milano, allora non ancora “da bere”. Per me non era la destinazione ideale, troppo lontana da casa, dalla mia Sicilia.

Certo, si trattava di una sede importante, dove avrei potuto fare interessanti esperienze, e per un certo periodo ho pensato anche seriamente di fermarmi lì. Poi però le cose, come vedremo, sono andate in modo diverso, molto diverso.

Preso possesso del mio ufficio, mi venne assegnata una stanza occupata anche dal collega Rigillo ‒ fratello del noto attore Mariano Rigillo ‒, il quale fu prodigo di consigli e suggerimenti che mi furono davvero utili per la mia nuova esperienza. Tra i primi procedimenti, ricordo quello a carico di Luciano Lutring, uno dei protagonisti della malavita milanese di quegli anni, soprannominato “il solista del mitra” perché aveva l’abitudine di nascondere il fucile mitragliatore che utilizzava per i suoi crimini nella custodia di un violino.

Era specializzato in rapine e ne portò a termine centinaia, per un bottino, secondo quello che raccontò lui stesso quando fu arrestato, di circa trenta miliardi di lire. Io, giovane magistrato, fui colpito dallo spessore criminale del personaggio, uno che amava la bella vita, le auto di lusso e le belle donne; allora non potevo immaginare che, alcuni anni dopo, mi sarei imbattuto in efferati criminali, capaci delle peggiori barbarie, al cui confronto Lutring poteva essere considerato un ladro gentiluomo. È proprio vero che nella vita tutto è relativo.

Tra i procedimenti assegnatimi in quel periodo, rammento quello riguardante un reato di bancarotta fraudolenta da circa 800 milioni di lire, somma notevole all’epoca anche per l’opulenta Milano. Fu con quel processo che iniziai a interessarmi di scritture contabili e movimenti bancari, acquisendo un’esperienza che mi sarebbe risultata utile in seguito, una volta tornato a Palermo e entrato a fare parte del pool antimafia.

Sono tanti i ricordi della mia vita a Milano. Uno di essi è legato proprio al procedimento penale cui ho fatto testé riferimento. Il difensore (o uno dei difensori, non rammento con precisione) dell’imputato era Luigi Franchi, autore con Virgilio Feroci e Santo Ferrari de “I quattro codici per le udienze civili e penali”, un manuale, tra i tanti, utilizzato da studenti della facoltà di giurisprudenza, avvocati e magistrati.

Orbene, Franchi, nel presentarsi come difensore dell’imputato, non poté fare a meno di segnalarmi che era lui, proprio lui, l’avvocato Luigi Franchi, autore insieme agli avvocati Feroci e Ferrari de “I quattro codici”. Un modo di mettermi sull’avviso che avrei avuto a che fare, giovanissimo e inesperto magistrato appena arrivato in città, con un “Principe del Foro”.

Mi chiese se potesse omaggiarmi una copia dei “suoi” codici, nonostante una la tenessi bene in vista sulla scrivania, e io gentilmente ma fermamente rifiutai l’offerta; non perché ne fossi già in possesso, sia ben chiaro, ma perché non intendevo essere condizionato in alcun modo.

A distanza di quasi sessant’anni, conservo gelosamente la mia copia di quel manuale, sul quale è impresso il timbro “Ministero di Grazia e Giustizia” e il numero di matricola 1231, avendolo utilizzato per le prove scritte del concorso per uditore giudiziario, superato al primo tentativo.

A Milano rimasi solo un anno. Di quei mesi mia moglie Lidia e io, sposini, ricordiamo una vita casa e lavoro, un tranquillo e freddo condominio dalle parti di piazzale Corvetto, non più centro ma non ancora periferia, rapporti con i vicini di pianerottolo cordiali ma un po’ asettici.

Ricordo che arredammo la piccola ma graziosa casa presa in affitto (costo della pigione 46 mila lire, poco meno di un terzo del mio stipendio) con l’aiuto dei colleghi Armando D’Agati e Salvatore Martino, vincitori del mio stesso concorso e anche loro “esiliati” in Lombardia. Debbo essere sincero. Quando mi riferisco all’aiuto datomi da Armando e Salvatore, intendo dire che, non essendo mai stato portato per i lavori manuali, io dirigevo i lavori e impartivo ordini, loro due li eseguivano! In compenso, rimanevano nostri ospiti a cena.

Qualche volta veniva a trovarci lo zio materno di mio padre, il commendatore Ersilio Marcucci, che abitava a Piacenza e che si era interessato per l’affitto della casa di via Avezzana al numero 14. In quell’anno pensai spesso a cosa fare della mia vita.

© Riproduzione riservata