Giochi di potere, scontri armati, interessi energetici, affari economici e faide che ciclicamente ritornano.

È la Libia post mortem di Muhammar Gheddafi: da quando è morto il rais della Jamahiriya non riesce più a tenersi insieme. Est, ovest, nord, sud sono in mano a decine di milizie. Il processo di transizione politica iniziato dalle Nazioni unite è ufficialmente fallito.

E lo dimostra anche la violenza scoppiata a Tripoli negli ultimi due mesi, scontri che sono legati anche all’ordine di comparizione per il generale Osama Njeem Almasri emesso dalla procura generale libica. Il capo della polizia giudiziaria liberato dalle autorità italiane, nonostante il mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, sta mantenendo un profilo basso. Dopo la liberazione alcune fonti libiche raccontavano a Domani che era «tornato a fare la bella vita», oggi non è più così.

Mesi di fuoco

Tutto è iniziato a metà maggio con l’assassinio di Abdel Ghani al-Kikli, noto come Gheniwa, comandante dello Stability support apparatus, una delle milizie più potenti nella capitale che si contende l’egemonia con le forze governative di Dbeibeh. Dietro c’è la mano dei servizi di sicurezza libici. Da quel giorno nella capitale la violenza è dilagata. Il bilancio finale degli scontri è di circa 90 morti e hanno decretato la supremazia delle forze governative e della Brigata 444 (un’unità dell’esercito regolare ma anche milizia guidata da Mahmoud Hamza).

Fonti libiche confermano che da quel giorno parte delle milizie di Gheniwa sono confluite nelle Forze speciali di deterrenza (Rada), la milizia del leader Abdul Raouf Kara e di cui Almasri è uno dei vertici. Di conseguenza, la Rada – che tra le altre cose ha il controllo dell’aeroporto di Mitiga – ha aumentato la sua potenza di fuoco ed è uno dei gruppi più forti che si contrappongono a Dbeibeh.

E così nelle ultime settimane il premier tripolino ha fatto terra bruciata intorno alla milizia. Ad Almasri ha tolto l’autorità sulla polizia giudiziaria e il gruppo è stato designato come illegale. La sua strategia ha un solo obiettivo: blindare il suo potere politico. Ieri il premier ha annullato tutti i trasferimenti tra i corpi di sicurezza e ha bloccato gli stipendi di alcuni funzionari.

Quattro giorni fa, prima del pasticcio diplomatico che ha coinvolto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e i suoi omologhi europei, Dbeibeh ha lanciato un ultimatum a Rada: «Nessun aeroporto, porto o carcere resterà fuori dal controllo dello stato», ha detto chiedendo ai 250 ricercati della milizia di consegnarsi. «Chi non vuole la guerra deve sottomettersi allo stato».

A Tripoli, però, le milizie si stanno organizzando e il rischio è una controffensiva nelle prossime settimane. La missione Onu in Libia (Unsmil) ha ricevuto segnalazioni di un rafforzamento militare intorno alla capitale e ha chiesto che «le forze recentemente dispiegate a Tripoli devono ritirarsi senza indugio». «Il dialogo – aggiunge la missione – è l’unica via per raggiungere una pace duratura e la stabilità».

Ma in Libia è difficile riunire tutti intorno a un tavolo. Anche l’Onu non ci è riuscita. Quando Dbeibeh è stato nominato premier del governo di unità nazionale (febbraio 2021), si sono succeduti quattro inviati speciali. Dbeibeh doveva rimanere in carica poco più di un anno per portare a termine il processo di transizione politica.

Ne sono passati quattro e non ha intenzione di cedere lo scettro.

© Riproduzione riservata