Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


Era l’ottobre del 1982 quando una delegazione italiana partecipò alla Conferenza internazionale delle forze dell’ordine tenutasi presso la sezione Criminalità organizzata del Federal Bureau of Investigation, l’Fbi, nella sede della sua accademia a Quantico, in Virginia.

Di quella delegazione faceva parte Giovanni Falcone che approfittò dell’occasione per prendere contatti, ben presto favoriti da cordiali rapporti personali, con le autorità giudiziarie che all’epoca erano impegnate nella complessa inchiesta condotta dall’FBI che aveva per oggetto un grosso traffico di droga tra Palermo e Stati Uniti gestito da mafiosi siciliani e “cugini” americani.

Era la nota operazione “Pizza Connection”, così denominata perché pizzerie e ristoranti venivano impiegati per coprire l’importazione dell’eroina dalla Sicilia e per tenervi i summit tra affiliati.

In quegli anni di febbrile attività di indagine, ben presto si intensificarono le rogatorie negli Usa di Giovanni Falcone, di tutti noi giudici istruttori e dei pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Palermo, con l’obiettivo di acquisire elementi di prova da utilizzare nel processo pendente a carico dello Spatola e di altri trafficanti di armi e sostanze stupefacenti.

Ma anche per trarre insegnamenti, e farne tesoro, dall’esperienza maturata da investigatori e funzionari dell’Fbi, il principale corpo della polizia federale statunitense, e della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia anti-droga statunitense.

E fu possibile ottenere la preziosa collaborazione di Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di Manhattan, che sarebbe diventato sindaco di New York nel 1994, di Louis Freeh, componente prima e direttore poi dell’FBI, e di Richard Martin, procuratore del distretto di Manhattan.

Nel corso delle numerose rogatorie a New York, si aprì davanti ai nostri occhi un mondo nuovo, un metodo investigativo all’avanguardia, grazie anche alle conoscenze in tema di collaboratori di giustizia (figure ufficialmente introdotte nel nostro ordinamento soltanto nel 1991) e alla disponibilità da parte degli investigatori statunitensi di moderni strumenti di lavoro. Imparammo molto.

Quando entrammo nella sede dell’Fbi la nostra attenzione venne colpita prima dagli enormi boccioni d’acqua presenti in ogni ufficio, poi dalle agende elettroniche e dai computer utilizzati dagli investigatori con i quali avremmo collaborato.

Già Rocco Chinnici aveva più volte chiesto in dotazione questo tipo di strumenti, ma dal nostro Ministero non era mai arrivato nulla, per cui noi quattro e i pubblici ministeri ancora annotavamo i nomi degli imputati e le informazioni sul loro conto su quaderni e agende cartacee.

Ci volle del tempo perché qualcuno si interessasse alle nostre condizioni di lavoro e finalmente rivolgesse da Roma lo sguardo verso la Sicilia.

Fu Liliana Ferraro, magistrato in forza al nostro Ministero, a essere inviata a Palermo dal guardasigilli Mino Martinazzoli per verificare le condizioni in cui operavamo.

Fu una visita molto utile perché Ferraro rimase sorpresa nel constatare le condizioni disastrose in cui versavano gli uffici: scrivanie e sedie malandate, macchine per scrivere obsolete o mal funzionanti, molti faldoni custoditi alla bell’e meglio, anche per terra, perché mancavano armadi sufficienti per contenerli.

Le indagini bancarie, infatti, avevano comportato l’acquisizione di una enorme quantità di documentazione. Grazie all’interessamento della dottoressa Ferraro, i nostri uffici vennero dotati di nuove ed efficienti attrezzature, anche informatiche.

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