Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


I fatti in tre parole. Il territorio di Gela è uno dei più illustri dell’Europa per antiche civiltà, ed anche uno dei più miserabili e derelitti. Allorché si apprese che l’Eni avrebbe costruito quaggiù il più grande stabilimento petrolchimico del continente, si disse anche che lo spettacolare insediamento industriale avrebbe rivoluzionato a tal punto quell’antica società meridionale da affrettarne di cinquant’anni l’evoluzione.

Sono trascorsi molti anni, lo stabilimento è una cosa fatta, ed è pari ai programmi, produce petrolio, concimi, materie plastiche per quasi cento miliardi l’anno; i suoi tremila dipendenti, quasi tutti siciliani, quasi tutti ex manovali, braccianti, contadini, pecorai, disoccupati, vivono in un villaggio esemplare dotato di tutti i comfort, hanno la casa, l’acqua calda e fredda, il bagno, i fiori nel giardino, i loro bambini frequentano scuole esemplari.

Tremila individui sono stati redenti. Non uno di più! La salvezza è arrivata solo per loro, tutto il resto è rimasto qual era, anche i problemi antichi e disperati della gente, l’analfabetismo, la disoccupazione, le case tristi, le strade polverose, il reddito misero, le galline in mezzo alle strade, i giovani che partono a modificare il loro destino nelle miniere del Belgio e della Germania. Fra l’industria e l’antico Sud esiste una frattura quasi brutale, che non è solo negli animi, nella diversa condizione umana della gente, ma persino nell’aspetto fisico delle cose. Il contrasto è addirittura visivo. Ci sono due mondi l’uno di fronte all’altro, il vecchio Sud triste ed infelice e l’industria. Qui stanno insieme, ma lontani: si ignorano l’uno con l’altro, anzi silenziosamente si combattono. Dire il contrario sarebbe profondamente disonesto. E purtroppo si sente quasi sempre dire il contrario.

Ci sono tre stati d’animo della popolazione nei confronti dell’industria e delle cose che essa rappresenta. Il primo stato d’animo è di rancore silenzioso ed è il più futile ed ingiustificato: appartiene ad una certa categoria che era abituata al comando, anzi ad una costante alterigia verso gli umili, a pagare un certo prezzo per il servizio degli umili stessi; ed ora invece essa si vede lentamente sfuggire una maniera di vivere meglio, più esattamente di sentirsi migliore, più fortunata e padrona. Una cameriera una volta si pagava con ventimila lire al mese, ora bisogna dargliene quarantamila o va a servire nella famiglia di un dirigente industriale. Sono borghesi, di quella particolare borghesia del Sud la quale è convinta che niente cambi mai sulla faccia della terra; nemmeno i rapporti fra gli esseri umani. Sono coloro che scrupolosamente vi possono spiegare la differenza fra «sabbenedica» e «baciolemani».

Essi ignorano l’industria, la considerano inesistente, in cuor loro la odiano, ma segretamente, con molto fair play, poiché pensano che l’industria è troppo potente, ha denaro per comperare tutto, i terreni, la protezione degli alti politici, la compiacenza degli oppositori, i servizi delle cameriere e degli ex braccianti. Il secondo stato d’animo appartiene invece alla stragrande maggioranza, cioè agli umili, i contadini, i pecorai, gli artigiani, i braccianti, i manovali, i bottegai. Dopo un primo tempo di speranze brucianti nel quale ognuno credeva di poter cambiare la propria condizione umana, si sono rassegnati alla situazione, sono tornati lentamente alla loro inerzia, a zappare la terra, a condurre pecore, emigrare in Germania. Sanno che oramai quel gigantesco stabilimento è estraneo alla loro vita, che alcune cose sono accadute, ma non ne accadranno più, intuiscono confusamente che in avvenire qualcosa potrebbe cambiare la loro vita, o quella dei loro figli, ma sono convinti che le leve di queste grandiose manovre sono inaccessibili alla loro umiltà. Aspettano.

Il terzo stato d’animo è quello degli intellettuali, appartiene cioè ai dirigenti politici, ai professionisti, a coloro che hanno ambizioni, possibilità di carriera, e non accettano questa cristallizzazione degli eventi. Essi avevano sperato che l’industria servisse anche a moltiplicare la loro potenza politica, la loro fama professionale, i loro traffici, il numero dei clienti. E non è accaduto. Tutte le cose che si sono moltiplicate l’industria le ha fatte sue. Ma soprattutto gli intellettuali non accettano una diminuzione del loro potere, rifiutano cioè che la società in cui vivono possa essere governata da altri e per altri interessi.

Dinnanzi alla enorme, quasi terribile potenza dell’Ente di Stato essi sono piccoli, sembrano gracili, ma hanno tenacia, rabbia combattiva, sanno parlare, sono animati da un’ incredibile volontà di lottare. Rappresentano la sola alternativa di potenza all’industria, costituiscono una classe alla quale si deve dare conto. In effetti essi lottano contro l’industria in nome di cose vecchie e sbagliate, di pregiudizi, di illusioni, ma anche di esigenze sociali. Purtroppo spesso la lotta è confusa, i bersagli sbagliati, le armi grottesche.

È una lotta assurda. Riflettete per un istante: la classe dirigente è la stessa che per decenni aveva invocato l’industrializzazione, che l’aveva considerata l’unica e definitiva maniera di risolvere la tragedia sociale. E l’industria è quella stessa che venne con gigantesche trivelle e discorsi ancora più imponenti, discorsi da apostoli moderni, da missionari che venivano dal Nord vestiti di amianto e alluminio, per redimere i cafoni vestiti di stracci. Ora sono gli uni di fronte agli altri e lottano. E non solo la lotta di per sé è assurda e grottesca, ma anche i pretesti, i metodi.

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