Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza della Corte d'Assise di Milano che ha condannato all'ergastolo Michele Sindona per l'omicidio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli


La mattina di venerdì 3 agosto 1979, nell'ufficio di Michele Sindona a New York, verso le ore 9.30, giunse una telefonata con la quale un anonimo interlocutore, parlando in inglese e con accento verosimilmente italiano, comunicò alla segretaria Xenia Vago che Sindona era stato rapito e che in seguito sarebbero state trasmesse altre notizie.

Il giorno stesso agenti dell'F.B.I. iniziarono le indagini, che per i primi tempi furono dirette a ricostruire gli ultimi movimenti e gli ultimi incontri di Sindona, attraverso le deposizioni di varie persone che avevano avuto recenti rapporti con lui o con le quali egli avrebbe dovuto incontrarsi nel giorno della scomparsa e nei giorni successivi.

Fra queste vennero sentiti l'avvocato Rodolfo Guzzi, giunto a New York dall'Italia la sera del 3 agosto per incontrarsi con Sindona, la moglie del “rapito”, i figli Marco, Maria Elisa e Nino, il genero Pier Sandro Magnoni, e Joseph Macaluso, proprietario del Motel Conca d'Oro e dell'annesso ristorante La Giara, siti a Staten Island, dove Sindona risultava essersi alcune volte recato nel corso dell'ultimo anno.

Tutti costoro non fornirono alcun elemento utile ai fini della ricostruzione dell'accaduto.

Il 9 agosto 1979 venne recapitata per posta all'ufficio di Sindona a New York una lettera spedita a Brooklyn il pomeriggio del 3 agosto, nella quale era contenuto il seguente messaggio: «Comunicato n.1 – Michele Sindona è nostro prigioniero. Dovrà rispondere alla giustizia proletaria. Seguirà nostro comunicato n.2».

Il pomeriggio dell’11 agosto 1979 fu spedita da Newark (New Jersey), e giunse a destinazione nello stesso ufficio di New York il mattino del 13 agosto, una lettera vergata a mano da Sindona e diretta alla moglie Rina, alla quale lo scrivente comunicava di essere sottoposto a frequenti interrogatori e lasciava intendere un certo ottimismo sulla conclusione della vicenda.

Il 27 agosto 1979 giunsero allo stesso ufficio di New York diverse lettere manoscritte da Michele Sindona, dirette alla segretaria Xenia Vago, alla moglie Rina, al fratello Ennio, ai figli Nino, Marco e Maria Elisa, al genero Pier Sandro Magnoni, ai difensori americani John Kirby e Marvin Frankel ed al difensore italiano Rodolfo Guzzi.

Nelle lettere dirette ai parenti – di scarso interesse e di contenuto eminentemente familiare – Sindona confermava di trovarsi prigioniero ed esprimeva la convinzione che i suoi sequestratori non lo avrebbero ucciso ma lo avrebbero un giorno liberato. Più importante era la lettera diretta all'avvocato Guzzi, perché in essa Sindona rendeva noti, per la prima volta, gli scopi in vista dei quali i suoi “rapitori” lo avevano sequestrato.

Con questa infatti egli riferiva al suo difensore che costoro volevano da lui notizie e documenti sul famoso “elenco dei 500”, sull’omicidio Ambrosoli (delitto al quale essi peraltro lo ritenevano estraneo), sulle operazioni finanziarie irregolari del “padronato”, e sui versamenti di danaro delle sue banche a partiti e a uomini politici. In seguito a comunicazioni ufficiali provenienti da organi governativi statunitensi, le autorità italiane iniziarono fin dall'agosto 1979 ad occuparsi della vicenda, e presso la Procura della Repubblica di Milano venne aperto il procedimento n. 4616/79-C, rubricato come «atti relativi alla scomparsa di Michele Sindona».

Nei mesi successivi si stabilì una sempre più intensa collaborazione fra le autorità dei due paesi, con frequenti scambi di notizie e di documenti. Alle ore 17,30 del 3 settembre 1979 i “sequestratori” si fecero vivi per la prima volta in Italia, con una telefonata giunta nello studio romano dell'avvocato Rodolfo Guzzi, il quale ne riferì il contenuto alla polizia. Con questa telefonata una voce femminile comunicò che Sindona era prigioniero di un “gruppo proletario”, che era sottoposto ad interrogatori al fine di raccogliere notizie utili alla lotta contro il “padronato”, e che presto sarebbe stato portato in Italia per essere processato per i suoi crimini.

Il 10 settembre, nell’ufficio di Sindona a New York, venne recapitato un breve messaggio dattiloscritto diretto a Pier Sandro Magnoni, firmato da un sedicente «Comitato Proletario di Eversione per una Giustizia Migliore». Nello scritto Magnoni veniva invitato a collaborare con Guzzi nel fornire le informazioni ed i documenti richiesti.

La lettera all’avvocato Guzzi, preannunciata nel messaggio telefonico del 3 settembre, venne spedita a Brooklyn 1'8 settembre e giunse nello studio romano del legale il successivo 12 settembre. Nella busta era contenuta una fotografia polaroid a colori riproducente Sindona con al collo un cartello nel quale si leggeva la scritta: «Il giusto processo lo faremo noi»; inoltre vi era una lettera di Sindona a Guzzi e un elenco di richieste dei “rapitori”: entrambi i documenti erano scritti di pugno dallo stesso Sindona.

Sia nella lettera di Sindona che nell’elenco di richieste dei “rapitori” si specificavano in dettaglio le richieste di notizie e di documenti già accennate nella lettera a Guzzi del 27 agosto, e si lasciava chiaramente intendere che qualora tali pretese non fossero state soddisfatte Sindona avrebbe corso pericolo di vita.

La Procura della Repubblica di Milano, ravvisando nella lettera (e nella precedente telefonata del 3 settembre) gli estremi dei reati di tentata violenza privata aggravata e di minaccia aggravata ai danni di Rodolfo Guzzi, con nota del 17 settembre 1979 trasmise i relativi atti alla Procura della Repubblica di Roma per competenza territoriale.

Da questo momento, e fino al maggio 1980 quando il procedimento venne restituito a Milano per competenza, le indagini sulla scomparsa di Sindona furono svolte prevalentemente dall'autorità giudiziaria romana.

Nei giorni seguenti i “rapitori” lamentarono la scarsa collaborazione degli avvocati di Sindona con una telefonata del 18 settembre all'avvocato Guzzi, con una telefonata del 26 settembre nello studio dell'avvocato Agostino Gambino, altro difensore romano di Sindona, e con una lettera dattiloscritta spedita il 30 settembre da New York e recapitata al destinatario Pier Sandro Magnoni il 2 ottobre al suo indirizzo in quella città. Nella telefonata del 26 settembre e nel dattiloscritto indirizzato a Magnoni i “rapitori” informarono anche di avere sparato a Sindona e che costui era rimasto «seriamente ferito».

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