Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Era il mese di aprile del 1993. Mi recai in Canada per interrogare Tommaso Buscetta a conclusione dell’attività istruttoria dell’ordinanza-sentenza che verrà emessa il 5 gennaio 1995. Eravamo nel difficile, terribile, fosco periodo seguente le stragi di Capaci e di via D’Amelio e prima degli attentati di Roma, Firenze e Milano.

Al termine dell’interrogatorio, al quale partecipò anche il collega Gioacchino Natoli (nel frattempo transitato in Procura dopo l’entrata in vigore del codice Vassalli), chiesi a Buscetta se, secondo lui, sarebbero stati perpetrati in futuro altri omicidi eccellenti.

Ci pensò, rimanendo qualche secondo in silenzio e, alla fine, vaticinò che la strategia di Cosa nostra sarebbe cambiata: non avrebbe più compiuto attentati a rappresentanti delle forze dell’ordine, magistrati e imprenditori, ma bensì al patrimonio architettonico e artistico italiano.

Disse proprio così.

In effetti arrivarono le bombe di Roma, Firenze e Milano, che provocarono dieci vittime innocenti, tra di esse due bimbe. E poi decine di feriti e montagne di macerie.

Con le stragi la mafia intendeva mettere all’angolo lo Stato italiano, costringerlo a venire a patti, creando così le condizioni per quella che, processualmente, sarà nota come “la trattativa Stato-mafia”.

All’epoca ritenni che Buscetta avesse espresso soltanto una opinione personale e non una vera e propria previsione che sarebbe stata confermata, purtroppo, da quanto accaduto qualche mese dopo.

Ho raccontato anche a chi di dovere questo episodio, che mi ha colpito perché allora Buscetta viveva sotto protezione, isolato dal suo vecchio ambiente, senza nessuna frequentazione particolare. Eppure fu in grado di sfornare una previsione, rivelatasi esatta, paventando una serie di eventi rispetto ai quali non c’erano precedenti.

E allora pensai che o eravamo di fronte a un personaggio dall’intuito straordinario oppure qualcuno, che magari gli offriva protezione, gli aveva sussurrato questa possibilità. Ma se gli americani, che avevano Don Masino in custodia, erano al corrente di una simile “svolta” da parte di Cosa nostra rispetto alle sue sperimentate iniziative, possibile che nessuno avesse pensato ad avvisare per tempo i servizi italiani?

Oppure la notizia partì dall’Italia, dove qualcuno si sentì forse in dovere di chiedere l’opinione di un esperto come Buscetta su un simile cambiamento di strategia?

C’è da dire, però, che nell’orizzonte criminale l’ipotesi di usare l’esplosivo contro monumenti era già balenata grazie a Paolo Bellini.

Di chi si tratta? Ex militante di Avanguardia nazionale, assassino di Alceste Campanile, suo ex amico del Fronte della Gioventù poi passato a Lotta Continua, Bellini, nel febbraio 2020, ha ricevuto anche un avviso di fine indagine per la nuova inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna.

Di quell’attentato Bellini è ritenuto un esecutore che avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi ‒ questi quattro tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori ‒, oltre che in concorso con esponenti dei Nar già condannati.

Questa però è la parte della sua vicenda giudiziaria che meno ci riguarda, in questo frangente. Perché ciò che risulta interessante è che Bellini, nel 1981, era detenuto nel carcere di Sciacca, dove conobbe Antonino Gioè, che faceva parte della cosca di Altofonte e che più tardi avrebbe avuto un ruolo determinante nella strage di Capaci, occupandosi del confezionamento dell’esplosivo e del successivo posizionamento nei cunicoli sotto l’autostrada.

Gioè diede anche il segnale a Giovanni Brusca per azionare il telecomando che provocò l’esplosione.

Bellini, in accordo con l’Arma dei Carabinieri, instaurò una trattativa con Gioè, dietro il quale c’era Brusca, per effettuare uno scambio fra benefici di pena per cinque “uomini d’onore” anziani e malati e la restituzione di opere d’arte per decine di miliardi.

Siamo nel periodo che precede l’attentato di via D’Amelio, e la trattativa non andò a buon fine. Dopo le stragi però, con Riina in carcere, Bagarella, Brusca e Messina Denaro decisero di proseguire nella sfida allo Stato accettando un suggerimento che, tramite Gioè, arrivava da Bellini: posizionare, a mo’ di intimidazione, una bomba da fare ritrovare nella Torre di Pisa e siringhe di sangue infetto sulle spiagge di Rimini. Brusca ha raccontato di essere stato tagliato fuori dall’organizzazione degli attentati da qui in poi, ma di avere saputo che la decisione dei luoghi da colpire fu adottata da Matteo Messina Denaro, l’esperto d’arte dell’organizzazione.

Tutto questo per dire che è difficile comprendere come Buscetta abbia potuto sapere, isolato com’era, dei progetti dentro Cosa nostra, ma che l’ipotesi di colpire chiese, musei e monumenti circolava in qualche forma già da tempo all’interno dell’organizzazione.

Ripensando a quel colloquio, dopo molti anni continuo a chiedermi se Tommaso Buscetta avesse soltanto azzardato una sua ipotesi oppure avesse inteso fornire una precisa “anticipazione” sugli imminenti piani di Cosa nostra.

Se è valida la seconda ipotesi, da chi avrebbe potuto ricevere quelle informazioni? Difficile supporre che fosse stato avvisato dai suoi ex sodali. E allora, da chi?

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