Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


Nell’estate del 1985, dopo gli omicidi di Beppe Montana e Ninni Cassarà, due eccellenti poliziotti che erano nostri fedeli e preziosi collaboratori, il clima era diventato pesante al punto di costringere la nostra famiglia ad abbandonare precipitosamente la casa al mare perché era troppo pericoloso soggiornarvi.

Un luogo aperto, non difendibile, con strade di campagna non illuminate, non esattamente il posto ideale per stare al sicuro.

Così, pur essendo pieno agosto, rientrammo nella nostra casa di Palermo, dove potevamo godere di maggiore protezione. E noi ci sentivamo più tranquilli.

Un altro rafforzamento delle misure di protezione fu deciso dopo le stragi del 1992 per i magistrati che avevano fatto parte del soppresso Ufficio di Istruzione e che, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, il codice Vassalli, erano transitati o all’ufficio GIP o alle Sezioni Penali del Tribunale o alla Procura della Repubblica.

A tutti noi vennero potenziati i servizi di scorta o tutela ai quali eravamo già sottoposti. Per prima cosa la scorta con due auto blindate, oltre quella in cui prendevo posto insieme al capo-scorta. E poi un soldato dei Vespri Siciliani sul tetto di casa mia, un altro sul pianerottolo, un terzo in una garitta posta davanti il portone dell’edificio.

E venne anche installato un servizio di videosorveglianza della porta di casa, del portone di ingresso e del vialetto sottostante dove c’è il garage. Infine, vennero montati vetri anti-proiettile alle finestre delle stanze della mia abitazione che davano sulla strada principale.

La scorta ogni tanto mi ricordava che la nostra vita, così come quella dei ragazzi che mi proteggevano, era sempre in pericolo. In quel periodo non uscivo con mia moglie e i miei figli e non intrattenevamo vita di relazione. Stavamo per lo più soli. Raramente ci concedevamo qualche cena

a casa nostra con pochi amici, molto raramente. Certe frequentazioni alle quali eravamo abituati capimmo che non sarebbero più state possibili. La vita sociale di noi giudici ‒ e non solo di noi giudici ‒ era ridotta ai minimi termini.

Casa e lavoro, lavoro e casa era la regola. Ma c’è da dire che Palermo non invitava a vivere spensieratamente in quegli anni. Troppa tensione, troppa paura.

Ecco come tutto è mutato per me e i miei cari dopo la telefonata del consigliere Antonino Caponnetto.

Quando approdai all’Ufficio di Istruzione mi fu assegnata la stanza numero 7, tra la numero 6 occupata da Giovanni Falcone e la numero 8, occupata da Paolo Borsellino. Un segno del destino, probabilmente.

Questi locali, come tutti gli altri occupati da una decina di colleghi, tra i quali Giuseppe Di Lello, si trovavano al piano rialzato del Tribunale e davano sulla piazza del mercato rionale, alla quale era possibile accedere da una scala posta tra la stanza mia e quella di Falcone. In questo modo il pubblico aveva libero accesso ai locali dall’esterno, in entrata e in uscita, in un contesto in cui Falcone, Borsellino e Di Lello lavoravano a tempo pieno su processi di mafia ed erano già sotto scorta. Una situazione intollerabile, che la dice lunga sul livello di rischio di alcuni magistrati in quegli anni e sulla percezione del pericolo da parte dello Stato.

Come spesso accade, ci volle un evento tragico per cambiare le cose. Dopo l’attentato al consigliere Rocco Chinnici ‒ avvenuto il 29 luglio del 1983 ‒ i miei tre colleghi si trasferirono al primo piano ammezzato, concesso “in prestito” dalla locale Corte di Appello, e Falcone e Borsellino occuparono le stanze di quello che per tutti sarebbe stato il nostro “bunkerino”.

Poi, quando sono entrato a fare parte del pool, anche a me è stata assegnata una stanza, accanto a quella occupata da Peppino Di Lello, che si affacciava sul corridoio in cui era allocato il “bunkerino”. Infine, quando Paolo Borsellino assunse, nell’agosto del 1986, le funzioni di procuratore della Repubblica a Marsala, ho ereditato il suo ufficio ed è così cominciata la convivenza con Giovanni Falcone.

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