Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Il capitano Tumbiolo, bevve con avidità la sua tazza di caffè, accese una sigaretta e ne aspirò con soddisfazione due boccate. Con il pollice e l’indice della grande mano si stirò due volte i baffi all’angolo della bocca ed ogni volta le punte gli rimbalzarono su come fili di metallo. Strabuzzando un pò gli occhi, il capitano si fissò soddisfatto i baffi. Era vecchissimo ma si sentiva bene, aggressivo. Fece un verso di disprezzo.

«Cosa crede, che qui manchi il lavoro? Nossignore. Qui non manca! Un imbarco sui bastimenti lo possono trovare tutti. E se per qualche mese non c’è un imbarco, c’è sempre la possibilità di lavorare a scaricare il pesce dai bastimenti che arrivano, a sistemarlo nelle cassette, a togliere le teste alle sardine, a rammendare le reti, a calafatare i pescherecci. Si paga in moneta sonante. Ma molti si vergognano, questa è la verità. Pensano: che direbbe la gente se mi vedesse scaricare casse di pesce oppure tagliare le teste alle sardine? Allora preferiscono andare a scavare carbone nelle miniere. Molti uomini sono buoni, ma sono anche stupidi come le acciughe. Io sono vissuto settant’anni sul mare; se mi calassero un solo giorno in fondo ad una miniera morirei di crepacuore». Una guardia di finanza gli fece un cenno interrogativo. Lo apostrofò: «Ma che fai, pensi sempre ai soldi? Hai ottant’anni, che te ne fai? La sera sei qua sul molo a contare le tonnellate di pesce, la mattina all’alba sei di nuovo sul molo. Devi avere barili di soldi tu...».

Il capitano tremò di indignazione e si drizzò minuscolo e impettito con uno sguardo di sfida. Gli gorgogliarono quattro o cinque insulti in gola, ma le parole gli rimasero tra i peli dei baffi. La guardia di Finanza era pubblico ufficiale della Repubblica di cui egli era cavaliere. Non poteva insultarlo. Lo aggredì: «Quali soldi? Tu che ne sai? Tu che cosa sei? Stai qua sul molo con la pistola sulla pancia e passeggi avanti e indietro o guardare i bastimenti. Bella vita! Io vengo qui all’alba e peso il pesce, pago gli uomini, controllo le corde, le ciminiere, le sartie, faccio rammendare le reti, caricare la nafta, vendo il pesce ai rigattieri. Io ho ottant’anni, il giorno in cui non sarò più capace di venire qui all’alba e arrampicarmi sul bastimento, allora me ne starò a casa, mi stenderò sul letto con una bella sigaretta e morirò senza dare fastidio a nessuno. Io sono vissuto ottant’anni bene e con soddisfazione, ho fatto le cose che mi piacevano, ho avuto figli alti come Maciste, e ho lottato. Come si fa ad arrivare a ottant’anni? Io mi sono alzato sempre all’alba. Mi piace il caffè, mi piacciono le sigarette, mi piace il vino, e mi piace mangiare. Gli spaghetti, i dolci, le bistecche e il pesce arrostito sulla carbonella. Bisogna mangiarlo mentre fuma ancora, con una goccia di olio, origano e pane caldo. Poi un bicchiere di marsala, una tazza di caffè e una nazionale senza filtro: queste sono soddisfazioni...».

La guardia di Finanza veniva dalla laguna veneta. Era biondo, roseo, saccente. Disse con un risolino: «E le donne?». Il vecchio gli sbuffò in faccia una risata di sarcasmo, gli agitò in faccia il pollice e l’indice di una mano come a dire che lì, a Mazara, un finanziere faceva la fame.

Quella storia dei troppi soldi lo aveva però offeso. Un occhio lo tenne bene aperto, guardandoci, ma l’altro se lo fece piccino piccino. Disse: «Ogni bastimento vale un milione di lire a tonnellata. Chi ha un bastimento da cento tonnellate possiede cento milioni. Ma basta un uragano, la punta di uno scoglio, oppure un branco di tunisini e puoi perdere tutto. Il bastimento non serve per guadagnare soldi, ma per pescare il pesce e dare da vivere a tutto l’equipaggio. Ogni uomo dell’equipaggio prende il quattro per cento sull’importo del pescato, ma il comandante di un bastimento deve pagare anche la cassa mutua per i suoi uomini, il fondo pensioni, acquista la nafta, i viveri, le reti, gli attrezzi. Per il padrone di una nave è come per il padrone di un agrumeto: per tutto l’anno ci ha speso soldi, ha abbeverato le piante, ha pagato i contadini, ha lustrato i frutti, poi viene una tempesta, una grandinata e distrugge tutto. La verità è che anche noi siamo povera gente, lavoriamo ognuno per conto suo. Quanto lo pagate il pesce a Catania, Messina, Palermo? Millecinquecento lire al chilo? Duemila lire al chilo? Noi lo vendiamo per metà ai rigattieri e quelli poi stabiliscono il prezzo che vogliono nelle città. Se ci mettessimo tutti d’accordo a comperare dei camion frigoriferi per andare a vendere il pesce, i prezzi sarebbero diversi. Ma la storia è sempre quella: non ci mettiamo d’accordo, non abbiamo il tempo di farlo, non ci pensiamo nemmeno. Il nostro mestiere è quello di andare per il mare, ognuno sulla sua nave e stare un mese, due mesi, senza vedere terra. Quando uno torna ci sono tante cose, la moglie, i figli, le cambiali, il letto comodo, mangiare e bere, dormire, incatramare il bastimento, aggiustare le macchine, comperare le reti, reclutare l’equipaggio, pagare le tasse. Quando potremmo infine parlare e metterci d’accordo fra di noi, è già arrivato il tempo di ripartire. Dove si potrebbe fare, meglio che qui, una fabbrica di pesce in scatola per venderlo in tutto il mondo e guadagnare miliardi? Una fabbrica c’è, ma è piccola, sono venuti alcuni francesi a costruirla.

Chi ha quattro soldi qui si compera un altro bastimento, oppure una bella salma di vigna... Finalmente acconsentì a farsi fotografare. A prua del suo bastimento però, dritto e spavaldo, con quel gigantesco berretto da capitano, calcato sulla fronte. Erano le tre dopo mezzogiorno; il porto era gremito di navi deserte. L’acqua era così verde, senza un rigo di vento, i bastimenti così immobili che sembravano incagliati in mezzo a un prato. Il vecchio si arrampicò sul suo, lo visitò accuratamente, non c’era un pollice di quella barca che egli non conoscesse, e tuttavia aggiustò di nuovo ogni cosa, il fasciame, gli oblò, con gli occhi socchiusi, proprio come un intenditore di musica che sfiora la chitarra per controllarne il tono.

Parve molto soddisfatto. Si drizzò sulla prua, mani ai fianchi. Precisò: «Questa è una barca che potrebbe attraversare l’Oceano. E’ dura, solida, ha un motore che non si ferma mai: oramai la conoscono in tutto il Mediterraneo. L’hanno fabbricata nei nostri cantieri; qui fabbricano i migliori bastimenti italiani, migliori anche di quelli di Chioggia e Savona, nemmeno un uragano riesce a metterli sotto. Ogni tanto arriva qualche signore del Nord e ne compera uno andato già in disarmo, lo fa aggiustare, verniciare di bianco, ci mette le vele per abbellirlo, ci sistema letti di gommapiuma, cucine, salotto, frigoriferi, televisione e aria condizionata e se ne va a viaggiare lungo le coste come un pascià. Sul tetto della cabina ci mettono i materassini per prendere il sole durante la navigazione. Il sole! Puah…».

Era nero nella faccia e nelle mani, l’aria del mare e il sole lo avevano scavato di rughe anche in mezzo ai baffi, anche dentro gli occhi. Ma aveva la pelle delle braccia bianca e tenerissima. Sotto la camicia nera aveva un petto bianco come un bambino. «Sul tetto della cabina ci mettono anche un trampolino per fare i tuffi. Vogliono sapere a quante miglia dalla costa cominciano i pescecani, e se è vero che dall’odore del vento si può sentire l’odore di un uragano che arriva. Puah...! In tutta la mia vita io ho fatto solo una volta il bagno in mare, e non ho visto pescecani, né ho fiutato mai un uragano. Il vero pericolo sono i tunisini. Autentici figli di p... quelli. Brutta razza i tunisini. Hanno il pelo sull’ombelico. Sono sciacalli! Se ne stanno quattro o cinque giorni a sorvegliarci da lontano mentre noi caliamo le reti, inseguiamo la passa del pesce e cominciamo a tirare su la preda. E quando l’abbiamo stivata arrivano loro con le vedette e ci sparano una raffica di mitragliatrice a prua. «Alto là! documenti! Non sapete che queste sono acque territoriali?».

Noi siamo dieci miglia fuori dalle loro acque, ma essi hanno le mitragliatrici; se uno cerca di scappare ti sparano subito addosso. L’anno scorso uccisero due marinai di Mazara. Sono beduini. Sequestrano il pesce, il bastimento e l’equipaggio. Inoltre per lasciare liberi gli uomini vogliono un riscatto di due o tre milioni e intanto tengono gli uomini in carcere. Se protestano sono legnate da orbi. Ci vorrebbe una bella nave da guerra nostra che li pigliasse a cannonate, questo sarebbe ragionare da uomini. Ma figurati se le navi nostre pigliano a cannonate nessuno! Noi chi siamo? Chi ci conosce nei ministeri? “Ah, si, quelli di Mazara del Vallo, e dov’è Mazara del Vallo? In Sicilia, guarda un po’! Ma com’è che rompono sempre le scatole? Ma chi glielo fa fare di pescare? Potrebbero fare i falegnami o i contadini...”. L’altra volta presero anche uno dei miei bastimenti: venne su un poliziotto tunisino, con il mitra, tutto allegro. Il capitano del bastimento si chiamava Ingargiula, e disse che le macchine non funzionavano.

«Non vedi che sono guaste?» disse al poliziotto tunisino il quale si chinò a guardare le macchine. Allora il capitano gli dette un terribile papagno sulla testa e se lo portò qui il poliziotto. Il beduino! Qui lo alloggiarono nel migliore albergo, gli dettero sigarette pregiate, cotolette e gli pagarono il biglietto dell’aereo fino a Tunisi. Tante scuse per il cazzotto! Ogni tanto da Palermo ci dicono che arriveranno corvette militari piene di cannoni per proteggerci durante la pesca. Quattro belle cannonate ci vorrebbero, magari a salve… (Fece una risata, uno sbadiglio lunghissimo e si leccò i baffi. Erano appena le cinque del pomeriggio. Se ne andò senza nemmeno guardarci). «Buonanotte! Io me ne vado a dormire!».

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