Le migrazioni esistono da sempre e avvengono sotto la spinta combinata di fattori economici, sociopolitici e anche ambientali. Quale sia il peso della crisi climatica sulle migrazioni non è facile da stimare. Un editoriale pubblicato due anni fa dalla rivista Nature Climate Change sottolineava che le stime sul numero dei cosiddetti “migranti climatici” attesi entro il 2050 varia tra 25 milioni e 1 miliardo. Un’incertezza enorme che suggerisce quanto sia difficile classificare le persone che migrano in categorie specifiche.

Di certo però la migrazione, sia interna, dalle campagne verso le città, che internazionale, è riconosciuta come un importante strumento di adattamento all’aumento delle temperature, del livello dei mari e all’intensificarsi degli eventi meteorologici estremi.

«Sono numerosi gli esempi storici in cui le persone hanno risposto a condizioni meteorologiche estreme attraverso la migrazione», spiega Cristina Cattaneo, ricercatrice del Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici ed esperta di migrazioni.

«Per esempio, è probabile che una siccità plurisecolare abbia contribuito alla deurbanizzazione della Valle dell'Indo tra Pakistan e India settentrionale, circa 4000 anni fa. Analogamente, negli anni Trenta centinaia di migliaia di famiglie lasciarono le praterie statunitensi e canadesi per trasferirsi a ovest, in Oregon e California, a causa della siccità e della serie di tempeste di sabbia che colpirono la regione in quel periodo.»

Il nesso tra cambiamento climatico e migrazione può essere anche indiretto. Per esempio, gli esperti concordano che la siccità che ha colpito la Siria tra il 2007 e il 2010, la più grave mai registrata nel paese dall’inizio delle misurazioni, abbia avuto un ruolo importante nello scoppio del conflitto che ha poi portato alla fuga dei cittadini siriani prima verso paesi limitrofi, come Libano e Turchia, e poi verso alcuni paesi europei nel 2015.

Sempre Cattaneo ha condotto uno studio insieme agli economisti Valentina Bosetti, dell’Università Bocconi, e Giovanni Peri, della University of California, Davis, che ha evidenziato come la migrazione costituisca una valvola di sfogo in queste circostanze, riducendo cioè la probabilità che il riscaldamento globale generi conflitti. I ricercatori hanno osservato che durante i quaranta anni tra il 1960 e il 2000 nei paesi in cui la propensione a emigrare, misurata attraverso la dimensione della rete di connazionali già residenti all’estero, è maggiore, l’aumento delle temperature ha generato meno frequentemente conflitti.

Inoltre, i ricercatori non hanno osservato alcun effetto significativo di aumento dei conflitti nei paesi di destinazione. I migranti, insomma, non porrebbero rischi alla sicurezza dei paesi di arrivo.

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Tuttavia, proprio il cambiamento climatico potrebbe rendere inaccessibile questo strumento per i più poveri di alcune regioni del mondo, almeno per quello che riguarda la migrazione internazionale.

È questo il risultato di uno studio coordinato da Hélène Benveniste, ricercatrice alla Harvard University, e pubblicato sull’ultimo numero della rivista Nature Climate Change. Secondo gli autori il nesso tra cambiamento climatico e migrazioni passa dalle variazioni di reddito dei cittadini.

L’aumento delle temperature e il conseguente intensificarsi degli eventi meteorologici estremi, come siccità, uragani e alluvioni, avranno infatti un impatto sulle economie di tutti i paesi del mondo.

I redditi si ridurranno e aumenteranno così gli incentivi alla migrazione verso paesi più ricchi dove trovare condizioni di vita migliori e nuove opportunità di lavoro. Ma per poter partire servono risorse sufficienti, che proprio il cambiamento climatico potrebbe rendere non disponibili per i più poveri, coloro che verranno maggiormente danneggiati dal cambiamento climatico.

«La migrazione internazionale è molto costosa, sicuramente più costosa di quella interna, e solo i più ricchi possono permettersi di intraprendere viaggi verso paesi lontani magari con redditi molto più elevati», commenta ancora Cattaneo.

Lo studio coordinato da Benveniste ha concluso che in tre regioni del mondo, Africa Subsahariana, Nordafrica ed ex Unione Sovietica, la migrazione internazionale delle fasce più povere della popolazione potrebbe ridursi tra il 10 per cento e il 33 per cento entro la fine del secolo a causa del cambiamento climatico.

Questo calo produrrà anche un danno indiretto perché ridurrà il volume delle rimesse che, a partire dalla metà del secolo, in molte regioni non riusciranno più a compensare i danni economici causati dal cambiamento climatico sui più poveri.

Intrappolati nella povertà

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Per ottenere questi risultati, ricercatori hanno costruito un modello che mette in relazione i flussi migratori con il reddito. Il primo passo è stato quello di dividere la popolazione in cinque gruppi di reddito crescente. Ciascuno di questi gruppi segue una dinamica migratoria diversa, perché il fattore che ne determina lo spostamento è legato al rapporto tra il reddito medio pro capite del gruppo e il reddito medio pro capite del paese di destinazione.

Esistono dei fattori che influenzano nello stesso modo la dinamica migratoria di tutti i gruppi. Per esempio, se la lingua parlata nel paese di destinazione è la stessa di quello di origine la migrazione è favorita, così come se la distanza geografica tra paese di origine e di arrivo è ridotta.

Questo modello è stato messo a punto sulla base dei dati sui flussi migratori tra il 2010 e il 2015, dividendo il mondo in 16 regioni (Australia e Nuova Zelanda, Canada, Europa centrale e orientale, America centrale, Cina, ex Unione Sovietica, Giappone e Corea del Sud, Medio Oriente, Nord Africa, Piccole isole, America meridionale, Asia meridionale, Sudest asiatico, Africa subsahariana, Stati Uniti, Europa occidentale).

Per mettere in relazione le migrazioni con il cambiamento climatico, gli autori hanno sfruttato un Impact Assessment Model (IAM) cioè un modello combinato di clima ed economia globale che gli ha permesso di stimare l’impatto di diversi scenari climatici sul reddito delle sedici regioni. C’è un generale accordo sul fatto che i danni del cambiamento climatico saranno regressivi con il reddito, cioè più gravi per i più poveri, ma quanto regressivi è ancora da capire.

Considerando il caso in cui i cambiamenti climatici provocano danni fortemente regressivi con il reddito (cioè che aumentano molto in termini percentuali al diminuire del reddito), i ricercatori tracciano due possibili scenari.

Il primo è intermedio sia in termini economici che climatici e in sei regioni su 16 le popolazioni più povere (quelle che appartengono al primo dei cinque gruppi di reddito) perdono almeno il 5 per cento del proprio reddito (Europa centrale e orientale, ex Unione Sovietica, Nordafrica, Sudamerica, Africa subsahariana, Stati Uniti).

Il secondo scenario prevede un contesto socioeconomico e climatico peggiore (scarsa cooperazione internazionale e maggiori emissioni di gas a effetto serra). In questo caso, le fasce più povere delle popolazioni perdono almeno il 5 per cento del loro reddito in ben 11 regioni su 16 e in due tra queste, Nordafrica ed ex Unione Sovietica, la perdita è del 100 per cento.

E più ricchi? Qualunque sia la dipendenza dei danni causati del cambiamento climatico dal reddito e qualunque siano gli scenari di sviluppo socioeconomico e climatico, perdono meno del 5 per cento del loro reddito.

In che modo questa riduzione del reddito si ripercuote sui flussi migratori? Per rispondere a questa domanda i ricercatori hanno confrontato le dinamiche migratorie di un mondo in cui il cambiamento climatico ha gli impatti economici che abbiamo appena descritto, con quelle di un mondo immaginario in cui il cambiamento climatico non ha impatti economici.

Considerando scenari socioeconomici e climatici intermedi, a partire dalla metà del secolo la migrazione dei più poveri rallenta in tre regioni con una riduzione che alla fine del secolo raggiunge il 2 per cento nell’Africa subsahariana e il 10 per cento nel Nordafrica e nell’ex Unione Sovietica.

Se si considerano invece scenari socioeconomici e climatici più pessimistici, la riduzione della migrazione dei più poveri si continua a osservare nelle stesse tre regioni, ma raggiunge il 9 per cento, 28 per cento e 14 per cento rispettivamente. Considerando infine il caso in cui i danni causati dal cambiamento climatico sono catastrofici, nel Nordafrica la riduzione raggiungerebbe il 33 per cento.

Gli autori hanno anche stimato l’impatto del cambiamento climatico sulle rimesse provenienti dall’estero, osservando che in dieci regioni su 16 le rimesse non saranno più in grado di compensare i danni subiti dai più poveri a partire dal 2050. Questo effetto è dovuto sia alla riduzione generalizzata del reddito, che dunque limiterà anche il reddito degli emigrati all’estero, che alla riduzione dei flussi migratori.

La migrazione interna

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Lo studio di Benveniste si concentra sulla migrazione internazionale, ma anche per la migrazione interna, la dinamica potrebbe essere simile.

Una ricerca condotta da Giovanni Peri della University of California, Davis insieme all’economista Akira Sasahara della University of Idaho e pubblicato nel 2019, ha infatti concluso che nei paesi poveri (il 25 per cento dei paesi con minore reddito pro capite) tra il 1970 e il 2000 il riscaldamento globale ha causato una riduzione del numero di persone che hanno migrato dalle campagne verso le città, a parità di incremento delle temperature.

In altre parole, a un aumento di 0,1 °C tra il 1970 e il 1980, quando le temperature medie erano più basse, sono corrisposti flussi migratori maggiori rispetto a quelli osservati in corrispondenza di un uguale aumento di temperatura venti anni dopo, quando le temperature medie erano più alte. «Il cambiamento climatico, soprattutto attraverso la riduzione delle precipitazioni, causerà un calo della produttività agricola e questo sarà tanto più grave quanto più l’economia di un paese o di una regione dipende dall’agricoltura», spiega Peri.

«Tipicamente, il prodotto interno lordo (Pil) dei paesi più poveri dipende maggiormente dall’agricoltura e dall’allevamento. In Chad più del 50 per cento del Pil dipende dalla produzione rurale, in paesi a basso e medio reddito come il Marocco, circa il 15 per cento. Le regioni in cui i settori industriale e terziario sono maggiormente sviluppati subiranno meno questi effetti. L’economia dell’Unione Europea, per esempio, dipende dall’agricoltura solo per l’1 per cento-2 per cento del suo Pil.»

Inoltre, i paesi più poveri saranno meno capaci di adattare rapidamente la loro agricoltura al clima che cambia, avendo accesso limitato a tecnologie come le colture Ogm che aumentano la resa dei raccolti e riducono l’uso dei pesticidi, o a sistemi di monitoraggio che permettono di sfruttare al meglio le risorse idriche.

Peri e Sasahara hanno usato un database estremamente ricco: i flussi migratori netti (immigrati meno emigrati) dal 1970 al 2000 con frequenza decennale su un mosaico di celle di circa 50 km di lato (di estensione comparabile alla Regione Valle D’Aosta) che coprono l’intera superficie terrestre. Hanno poi messo in relazione questi flussi con la variazione delle temperature medie registrate nelle singole celle sugli stessi periodi di dieci anni.

I ricercatori hanno così concluso che «nei paesi poveri, l’aumento delle temperature medie riduce l'emigrazione dalle aree rurali perché peggiora la produttività agricola, riducendo così la liquidità disponibile e rendendo impraticabile la migrazione.»

In questo gruppo rientrano molti paesi dell’Africa Subsahariana oltre a Yemen, Pakistan, India, Cina, Bangladesh, Haiti e altri. «In un’economia di sussistenza o di sussistenza estrema, le persone non possono risparmiare nulla, non possono lasciare la famiglia per una settimana per andare a cercare una sistemazione in città dove poi trasferirsi tutti. Significherebbe lasciar morire di fame i figli», commenta Peri.

«D’altro canto», scrivono gli autori «l'aumento delle temperature medie aumenta l'emigrazione dalle aree rurali nei paesi a basso e medio reddito perché gli shock termici ampliano il divario di reddito tra le aree rurali e quelle urbane, rafforzando gli incentivi alla migrazione degli individui, ammesso che questi siano in grado di pagare i costi della migrazione stessa.»

In questo gruppo rientrano alcuni paesi del Centroamerica, come Honduras, Nicaragua, Repubblica Dominicana, El Salvador, Guatemala, subsahariani, come Liberia, Botswana, Nigeria, Cameron, Angola e Costa d’Avorio, sudamericani, come Guyana e Paraguay, nordafricani, come Tunisia, Egitto e Marocco, e asiatici, come Indonesia, Tailandia, Filippine, e, in Europa, Albania, Serbia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina.

La narrazione 

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Questi lavori mettono in evidenza come il nesso tra cambiamento climatico e migrazione sia molto più complesso di quello che appare leggendo certe narrazioni dei media.

Secondo alcuni ricercatori le stime che prevedono masse di persone che si riversano nelle città o addirittura varcano le frontiere provenendo da terre devastate da siccità o alluvioni non sono sufficientemente robuste e probabilmente sopravvalutano il fenomeno.

Ma hanno conseguenze politiche importanti. Giustificano le politiche securitarie di alcuni stati che hanno investito solo nel controllo dei confini, a volte militarizzandoli, senza introdurre politiche di accoglienza e integrazione adeguate.

«Abbiamo bisogno di pianificare I flussi migratori sulla base delle conoscenze scientifiche e smettere di gestirli solo come un’emergenza», commenta Peri. «I migranti sono una risorsa fondamentale per molti paesi ricchi e la pianificazione ci permetterebbe anche di ridurre la migrazione illegale che pone un rischio umanitario per chi migra e si presta a facili strumentazioni politiche.

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