Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Al tavolo di un bar stavano seduti quattro contadini i quali avevano un requisito straordinario: ognuno di loro guadagnava il doppio di un alto magistrato. All’aspetto erano dei contadini normali, come travagliati da una catena di lutti, giacca nera. berretto, cravatta, gilè neri, la barba di tre giorni sulle guance.

Potevano avere cinquanta o sessant’anni, cioè quell’età indefinibile che hanno i contadini quando le ossa cominciano a rattrappirsi. Non avevano niente che li distinguesse dagli altri contadini, anche perché tutti i contadini che sedevano accanto a loro sul marciapiede, guadagnavano ognuno il doppio di un alto magistrato. Fra l’altro niente faceva supporre che in quella piccola città polverosa, disordinata, di palazzi costruiti a metà, case mediocri, strade sporche, gente che passeggiava interminabilmente nelle piazze senza un daffare apparente, ci fosse una così misteriosa ricchezza. Tuttavia, a guardarci dentro, c’erano alcune cose che, prese una ad una, sembrava facessero parte del disordine, e che tutte insieme invece lentamente scoprivano una realtà diversa.

Anzitutto l’incredibile numero dei negozi, poco più che botteghe, con la merce esposta quasi sul marciapiede, ma l’uno appresso all’altro, macellerie, bar, un grande magazzino, un emporio di mobili, fruttivendoli poi ancora altre macellerie, botteghe di pesce, negozi di tessuti, di abiti confezionati, tre o quattro bar consecutivi. E sul marciapiede una confusione di gente che entrava, usciva, patteggiava. Erano negozi poveri, disordinati, messi su alla buona, come ci fosse una svendita di oggetti, ma pullulavano.

Il secondo particolare che saltava all’occhio era l’attività della gente, quasi tutti camminavano in fretta, discutevano, non c’era dubbio che si dessero da fare, vendevano o acquistavano, o stavano combinando un affare; o correvano ad un appuntamento. L’impressione era moltiplicata dalla configurazione stessa delle strade, tutte parallele e tutte perpendicolari, sì che da ogni spigolo scorgevi altri dieci spigoli, altrettanto brulicanti.

Infine il numero delle automobili, quasi tutte di piccola cilindrata, oppure furgoncini o camion, che avanzavano su una duplice fila, che si ammucchiavano ad ogni crocevia. Ed auto per ogni dove, confusamente parcheggiate lungo le strade, sui marciapiedi. Questa piccola città aveva perciò il curioso aspetto di un luogo che fosse stato invaso da una folla in trasmigrazione, che cioè fosse arrivata confusamente e che confusamente stesse per ripartire. In effetti c’era una spiegazione: era sabato sera.

C’era anche una spiegazione per tutto il resto. Vittoria è sprofondata nel centro di una immensa vallata che comincia dagli altipiani di Ragusa e degrada lentamente verso il mare. Relegata nel fondo del continente europeo, distante da tutti i grandi centri dell’isola, lontana dalle miniere, delle grandi industrie, dai centri di produzione, dai porti internazionali, dai grandi aeroscali, non ha nemmeno la orgogliosa dignità architettonica di taluni paesi dell’interno, come Monterosso Almo, che mascherano la loro miserabile condizione dietro stupefacenti facciate barocche, palazzi di baronie oramai divelte e cattedrali splendide. Vittoria ha solo tre o quattrocento anni di vita, cioè cominciò a sorgere e crescere come colonia ragusana nel periodo più infame della storia economica siciliana: è fatta di case ad un piano, di piccoli palazzi, di prospettive squallide.

Non c’è un centro storico come negli altri paesi, un piccolo groviglio di palazzi attorno a quella che doveva essere la rocca del signore, ma tante strade eguali e monotone, strette, che si estendono parallele a perdita d’occhio e si dileguano nelle campagne.

Una città costruita da uomini che non avevano tempo, né denaro, né fantasia o cultura per farsi una città diversa o più bella. Discendono da lontani incroci fra indigeni ed arabi, sono piccoli, neri, ciarlieri, infaticabili. Probabilmente costituiscono la razza siciliana più dura, più incredibilmente laboriosa, più paziente, tenace, oscura, puntigliosa che ci sia nell’isola. Abitano in case modeste dove l’acqua arriva solo un paio di ore al giorno, camminano su strade sporche, hanno un vecchio e splendido teatro, di stile neoclassico, che non funziona da quindici anni, non hanno una galleria d’arte, hanno una biblioteca di diecimila volumi che non frequentano, non vedono mai un turista nella loro città, non hanno monumenti illustri, né bar eleganti, né circoli di grandi tradizioni, non ascoltano conferenze. Ma hanno una drammatica carica di energia umana, una qualità che probabilmente nessun’altra popolazione dell’isola possiede: tutto quello che toccano diventa oro! «Vede quegli uomini?» ci disse un avvocato «Tutti quegli uomini che affollano i bar, che stanno seduti in fila sui marciapiedi, che entrano nelle botteghe? Sembrano poveri, sono lisi negli abiti, umili nell’aspetto. E invece sono ricchi. Sa chi sono i poveri? Quegli altri che sembrano ricchi, quei trecento o quattrocento borghesi che passeggiano nella piazza, con la cravatta di seta, l’abito di gabardine, gli occhiali da sole. E sembrano contenti. Parlano di donne. Hanno lauree, diplomi, titoli di studio, ma non hanno niente da fare, sono disoccupati. Aspettano, si consumano».

L’avvocato che mi parlava era un uomo ancora giovane, un po’ trafelato, di statura minuscola, macilento, i capelli un po’ grigi, evidentemente non aveva mai praticato uno sport in vita sua, ogni tanto si ingobbiva con un piccolo tic per aggiustarsi la giacca che gli andava cadendo sempre sulle spalle troppo piccole. Ma aveva una stupefacente sicurezza di se stesso.

«Vede quegli uomini?» riprese «Non hanno paura di niente. Hanno la vocazione del rischio. Sono avari e spavaldi. Sono avari nel senso che lesinano il denaro che dovrebbero spendere per il loro diletto o magari per i loro bisogni essenziali. Ma sono spavaldi poiché nello stesso tempo lo investono continuamente, temerariamente nella produzione. Sono avari poiché sono avidi di ricchezza, ma per lo stesso motivo impiegano subito il loro denaro, lo rischiano di nuovo, per moltiplicare la ricchezza, e perciò sono generosi. Questi uomini producono più dei pozzi petroliferi di Ragusa, più del fatturato di una intera zona industriale. Dieci, dodici, forse anche venti miliardi ogni anno. Hanno fatto quello che altrove non ha saputo fare nessuno, né in Sicilia, né in Continente. Avevano una terra che era come tutte le altre, senza canali per irrigazione, senza dighe, senza strade, senza magazzini, ferrovie, silos, trattori.

In venti anni hanno trasformato tutta l’agricoltura del territorio, ognuno per conto suo; molti di quelli che hanno cominciato a lavorarci sono morti, ma ci sono ora i loro figli. Invece di grano, hanno coltivato ortaggi, pomodori, zucchine, melanzane, e poiché non c’era acqua, hanno scavato i pozzi con le loro stesse mani, e poiché il gelo d’inverno seccava le piante, e il vento di primavera le sradicava, hanno costruito le serre attorno alle coltivazioni.

Come in Riviera ligure si fa per le rose, per le dalie e le orchidee. Hanno speso miliardi, hanno lesinato il centesimo nella loro vita privata, hanno lavorato dodici o quattordici ore al giorno; se c’era una tempesta di notte essi erano sulla terra a rialzare un traliccio che stava crollando, a ricucire una membrana di politene che si era stracciata.

Hanno coperto tre milioni di metri quadrati di terra. A febbraio cominciano a vendere in tutti i paesi del MEC i primi pomodori a ottocento lire il chilo». Mentre l’avvocato parlava, dava anche disposizioni a coloro che gli si avvicinavano con deferenza, chiamava la gente, salutava le persone, gli parlavano a tre passi di distanza. Tuttavia non usò mai un termine improprio, né commise un errore di sintassi, né fece una citazione sbagliata o approssimativa.

Continuò: «Qui hanno fatto tutto da soli. Nessuno ha dato loro niente nemmeno il minimo che spettava. Gli ortaggi hanno una vita breve, ci vorrebbero dei grandi depositi frigidaire per immagazzinarli e difendere quindi i prezzi di mercato. Ci vorrebbe un grande scalo ferroviario per consentire un movimento rapido alle migliaia di vagoni che arrivano fin qui e ripartono. Ci vorrebbe una centrale ortofrutticola capace di smistare decine di migliaia di quintali di prodotto. Qui tutta la pianura gronda acqua, ma i contadini hanno dovuto scavarsela per conto loro, con i loro mezzi rudimentali. E non c’è acqua nemmeno nelle case, bisogna distribuirla con le autobotti. Qui è tutto vecchio, immobile, scrostato, cadente, inutilizzabile, sporco, brutto. Qui solo la gente vale!»

L’avvocato fu colto da una lieve raucedine e si placò un istante. Non fumava, non beveva caffè o liquori, probabilmente non aveva mai avuto un’amante nel paese, né occasioni di sfrenato libertinaggio; eppure era gracile, pallido, con gli occhi febbrili, le mani diafane e minuscole. Da quello che avevo però visto, da come le persone lo avevano salutato, o gli parlavano con devozione e lo guardavano, e dalle stesse cose che diceva, pareva un dominatore. Improvvisamente capii una cosa: perché la Sicilia o l’Italia è governata da tanti uomini che sembrano insignificanti, che vengono dalle province, uomini disadorni, un po’ tetri, dall’accento bizzarro.

Nelle grandi città vivono i professionisti, gli ingegneri che sanno tutto sulle costruzioni, i chirurghi, i grandi magistrati, gli attori; ma qui vivono questi piccoli professionisti della politica che alla politica sono portati per noia, per irreparabile necessità delle cose, per istinto di conservazione. Nascono qui nelle lunghe discussioni, nel tedio, nelle piccole polemiche, nelle squallide sale da gioco dove anche il tressette diventa un’arte dialettica.

Sanno tutto di ogni cosa, chiamano ogni cosa nella maniera più giusta ed esatta, le loro idee sono magari provinciali, ma elementari, sempre precise, spiegabili, documentate, ruminate in testa per anni, per centinaia e migliaia di ore trascorse in solitudine, nelle passeggiate interminabili lungo il corso, due o tre ore su e giù, sempre con gli stessi compagni, le stesse polemiche, gli identici problemi, le idee che si limano, si spogliano del superfluo e diventano importanti e definitive.

Tutti gli altri compaesani che si sentono defraudati o afflitti ognuno da qualcosa, il borghese dalla mancanza di acqua in casa, lo studente dall’impossibilità di trovare impiego, il contadino dalle tasse di cui non sa spiegarsi la ragione, i commercianti dalla carenza di clienti, gli ex combattenti dalla distrazione popolare per i loro sacrifici, si riparano dietro questi professionisti della politica, poiché essi riescono ad interpretare con parole precise quello che li altri esprimono solo confusamente.

Così questi uomini politici, minuscoli ma perfetti, che sanno di teologia, meccanica agraria, idraulica, sistema fiscale, royalties sul petrolio e procedure legislative, sbucano adagio nella vita delle province, sempre animati dalla febbrile ambizione di vendicare gli anni perduti, la noia, l’occasione che li ha fatti nascere in quel sito piuttosto che altrove, la mancanza di compagnie femminili. Sempre animati dall’infallibile istinto, dall’abitudine alla dialettica paziente, dall’arte di saper attendere. E dietro di loro la coorte dei clienti e degli interessi si impingua, i voti si moltiplicano, i posti che riescono a procurare, le raccomandazioni, le cariche da distribuire, gli stanziamenti da conquistare ad ogni costo. L’assemblea regionale siciliana è formata in massima parte da tanti piccoli ma perfetti cervelli politici, ognuno dei quali ha dei conti da pagare continuamente al suo elettorato.

L’avvocato disse: «Abbiamo gente che sa scavare l’oro dalla terra, ma per il resto nessuno ci dà niente. Inquadriamo la situazione. Vittoria sorge al centro di una pianura, in situazione di vantaggio orografico, esattamente fra le zone industrializzate di Ragusa e Gela. Possediamo l’unica agricoltura isolana suscettibile di fantastiche possibilità industriali. Tutto il sottosuolo è una sconfinata falda acquifera che potrebbe far dilagare il benessere idrico anche a cento chilometri di distanza.

A dieci chilometri abbiamo l’aeroporto di Comiso, a trenta il metano di Chiaramonte, a venti il petrolio della contrada Bonincontro. Avremmo bisogno di tre cose: dell’acqua portata alla superficie, di una moderna centrale ortofrutticola e di un’autostrada per la costa.

E moltiplicheremmo i nostri miliardi. Invece siamo in questa vallata come in fondo al Sahara, ai confini del mondo, non possiamo nemmeno più aumentare la produzione poiché non avremmo nemmeno come spedirla e ci marcirebbe sui campi. Una cosa ci manca: le leve del comando. Sono a Modica, a Ragusa, a Palermo e noi non siamo riusciti finora a conquistarne nemmeno una!».

L’avvocato aveva la sua parte di terra che produceva oro. Era ricco. Ma la sua abitazione era vecchia, intrisa di vecchi dolori, cosparsa di cose vecchie, di fiori di celluloide. Ed egli stesso era vestito dimessamente, con roba da poche migliaia di lire. Psicologicamente e per la sua parte egli rappresentava una realtà umana inconfondibile: rassomigliava al suo paese, spiegava l’assurda apparenza di povertà di tutto l’ambiente. Qui la gente ha appreso cioè che l’autentica potenza non è quella simbolica del palazzo, ma l’autorità politica, la possibilità di ottenere una legge, di fare approvare un progetto, di deviare il corso dell’acqua, fare costruire una ferrovia.

La potenza, e quindi la soddisfazione e la speranza di vivere sempre meglio e con maggiore sicurezza, non è nell’abitazione del contadino che si eleva di un piano, nel frigorifero che mantiene saporiti i cibi d’estate, ma la potenza è il denaro, la calcolata temerarietà con cui lo si impiega, la terribile pazienza con cui si affronta l’unico lavoro possibile, che è quello della terra. La terra da scavare, ricoprire, concimare, proteggere ed amare. Il prodotto che si vende a miglior prezzo è il pomodoro: ebbene per esso hanno scavato pozzi, lo hanno ricoperto di serre trasparenti come fosse fiore, lo difendono, lo confezionano.

A febbraio lo vendono ad Amburgo o Bruxelles a 800 lire al chilo. In questa città di piccoli agricoltori, di coltivatori, di contadini che spesso riescono davvero ad accumulare un guadagno doppio di quello di un alto magistrato, i disperati invece sono i borghesi, quelli che studiano, che vogliono elevarsi dalla loro condizione o vogliono confermare la loro provenienza intellettuale. A Vittoria non c’è nemmeno un bracciante disoccupato, anzi per molti lavori delle campagne o di spedizione si è costretti a ricorrere all’impiego della mano d’opera femminile. Ci sono invece cinquecento intellettuali disoccupati, laureati in giurisprudenza, ragionieri, maestri elementari, studenti che hanno dovuto interrompere i loro corsi. Continuano a studiare, si preparano per un concorso, aspettano con una triste pazienza che qualcosa accada.

La maggior parte di loro cerca una via di scampo nella politica, che diventa così un lavoro, una maniera di guadagnarsi comunque una benemerenza, la speranza di avere uno stipendio al Comune, alla Provincia, negli enti agrari, nelle segreterie dei partiti, in quel sottobosco della burocrazia o delle professioni dal quale germinano i protagonisti padroni della politica, ma in cui annegano tante illusioni ed energie.

La sera le famiglie dei contadini guardano il primo spettacolo della televisione e poi vanno a letto. ruminando il programma dei lavori dell’indomani. I borghesi si incontrano, discutono, giocano a carte, si annoiano, passeggiano, parlano di donne, qualche volta vanno a Marina di Modica dove c’è un piccolo villaggio turistico. Non accade quasi mai che riescano a conoscere qualcuna di quelle sparute ragazze tedesche arrivate fin quaggiù.

I giovani rassomigliano ai primi personaggi di Fellini, quei ragazzi che avevano un disperato amore di vivere e non c’era nessuno che li ascoltasse, niente che li acquietasse e sognavano la grande città, ma la grande città questo mito dolce e divorante era remota e irraggiungibile.

Ci sono due circoli di cultura nei quali da tempo non si organizzano conferenze o dibattiti di sorta, un circolo di professionisti, un circolo universitario, le sedi dei partiti politici affratellate dal piacere dello scopone e della dama, una quindicina di caffè ognuno frequentato da una sua clientela particolare (l’avvocato perfettamente ci spiegò: non una divisione classista, ma di amicizie), tre cinema, uno splendido teatrino comunale sprangato dal 1952, con un delizioso interno barocco per il cui restauro nessuna autorità vuole spendere un centinaio di milioni. Infine un circolo del cinema. unica iniziativa moderna. quasi una prepotenza intellettuale sull’ambiente, che proietta un film d’arte ogni sabato. Ma finito che è il film se ne vanno tutti lestamente uomini e donne, prima che si apra un dibattito. A che serve un dibattito su Resnais, su Chaplin, sui «pop» inglesi, quando fuori attende una piazza deserta, sulla quale altro non ci sarà da fare che passeggiare e ricominciare a dibattere daccapo?

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