La migliore descrizione di Liggio, molti anni dopo, ce la dette l’uomo che lo ha odiato più di ogni altro ed ha quasi dedicato la sua vita a questo odio. Un personaggio che è esattamente il contrario di Liggio: un corpo gigantesco pieno di muscoli, gli occhi azzurri, i capelli grigi a spazzola, cultore di filosofia e delle poesie di Byron. Il questore Mangano
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
La migliore descrizione di Liggio, molti anni dopo, ce la dette l’uomo che lo ha odiato più di ogni altro ed ha quasi dedicato la sua vita a questo odio. Un personaggio che è esattamente il contrario di Liggio: un corpo gigantesco pieno di muscoli, gli occhi azzurri, i capelli grigi a spazzola, cultore di filosofia e delle poesie di Byron. Il questore Mangano.
«Dapprima la sua potenza era quella sua fatale, infallibile decisione ad uccidere pur di sopravvivere e togliersi per sempre dalla sua condizione di infelicità. Poi via, via, fu anche il denaro. Grondava denaro da tutte le parti. Aveva persino il monopolio dei bigliardini e flippers in tutta la provincia. Senza muovere un dito, da quella sola parte raccoglieva ogni anno miliardi. Era nato poverissimo, infelice e con una diabolica vocazione al crimine, ma il suo quoziente di intelligenza e astuzia gli avrebbero consentito d’essere il governatore di una banca o il dirigente della CIA!»
Il questore Mangano potrebbe essere il biografo di Liggio: «Dapprima il piccolo contadino zoppo fece strage di tutti coloro che gli si opponevano, anzitutto il medico Michele Navarra, considerato l’eminenza della zona, padrone di tutto, dai voti politici agli enti di assistenza, alle grandi amicizie palermitane, alla amministrazione delle acque per gli aranceti. Fu letteralmente sfigurato a raffiche di mitra e con lui assassinato anche un povero, giovane medico che lo stava accompagnando in auto. Poi cominciarono a cadere uno ad uno tutti i suoi uomini, a due, a tre, nelle piazze di Corleone, nei vicoli, di giorno e di notte. Una strage. In mezzo a loro anche il sindacalista Placido Rizzotto che opponeva la sua passione civile alla violenza.
Il suo corpo, anzi il suo scheletro venne ritrovato in fondo ad una spelonca, una specie di pauroso abisso che si spalanca sulla vetta del monte Busambra. Per calarsi laggiù i carabinieri dovettero farsi aiutare dagli speleologi, e vi trovarono decine di scheletri, taluni legati con catene.
Si ritiene che taluni fossero stati scaraventati laggiù ancora vivi e avessero probabilmente agonizzato per giorni, straziati dalla sete e dalla fame!» Padrone di Corleone Luciano Liggio si avvicinò cautamente a Palermo conquistando una ad una le posizioni di periferia, prima le acque degli aranceti, poi i mercati generali, poi in una serie di assalti sanguinosi, tutto quello che c’era da conquistare, comprese le alte complicità che gli consentivano di sfuggire continuamente alla cattura, di aggiudicarsi nuovi e giganteschi affari, di estendere dovunque la ragnatela della complicità.
Quest’uomo piccolo, sofferente, gracile aveva persino un senso assurdo dell’ironia: si travestiva da donna, da prete, da agente di polizia, da americano in vacanza, alloggiava negli alberghi di lusso, si faceva ricoverare nelle cliniche più famose. Venne catturato proprio nella casa in cui, secondo logica umana non avrebbe mai potuto trovare ricovero, cioè nell’abitazione di Leoluchina Sorisi, la ragazza di Corleone che era la fidanzata di Placido Rizzotto, quando lo sventurato venne atrocemente ucciso. Agli uomini che spalancarono la porta della stanza da letto Luciano Liggio fece un sorriso mite, e un gesto garbato per indurli alla calma: «Non sparate, sono un povero paralitico!»
E mentre sostenuto alle ascelle lo conducevano al cellulare, disse educatamente: «Vorrei tre cose. Anzitutto un letto molto morbido e delle coperte di buona lana. Poi ho bisogno di mangiare carne, uova e latte. Infine, se volete che sopravviva, mi dovete dare sole e mare per qualche mese l’anno…»
Sembrava la splendida battuta di un personaggio che aveva concluso la sua parte al calare definitivo del sipario, ma egli già sapeva che era solo la fine del primo atto. Eccoci dunque a Corleone per capire. Veniamo da Palermo dove la mafia ha abbandonato oramai alla delinquenza comune la disputa delle piccole prede, il controllo dei mercati, l’acqua nei giardini, la guardiania degli agrumeti, persino le aree fabbricabili, dedicandosi agli affari immensi su tutto il territorio nazionale, il destino e l’ubicazione delle grandi opere pubbliche per centinaia di miliardi, il traffico internazionale della droga, l’industria dei sequestri e la riciclazione del denaro dei riscatti.
A confronto di queste cose gigantesche nelle quali sono coinvolti grandi trust politici e finanziari, banche internazionali, petrodollari, talvolta il destino di colossali iniziative industriali e probabilmente anche la salute di decine di migliaia di esseri umani che non sapranno mai come, perché, quando e per quale interesse di bilancio toccherà loro ammalarsi, o avere figli storpi e imbecilli, o vivere dieci o quindici anni meno del possibile, a cospetto di questa immensa violenza che spesso parte da Palermo, per ellissi sempre più ampie e misteriorse e quasi mai ritorna esattamente a Palermo, la minuscola Corleone sembra lontanissima, distaccata per sempre da una realtà con la quale non ha alcuna possibilità di aggancio, nemmeno economica e mentale.
Eppure a Corleone la gente continua a morire per assassinio più che in ogni altro luogo della Sicilia. E sono assassinii mafiosi, sempre, perché non si sa mai chi ha ucciso, né esattamente perché, né per quale movente, al servizio di chi, e chi sarà il prossimo a morire. Un capitano dei carabinieri ci aveva già dato una spiegazione quasi perfetta dal punto di vista tecnico. Era un uomo alto, con i capelli tagliati a spazzola, una splendida testa bruna e possente, le mani che avrebbero potuto stritolare un uomo. Era dritto, eretto, metteva le parole l’una appresso all’altra con una calma ordinata, costruendo sempre un concetto breve e logico. Sembrava un ufficiale prussiano, anzi uno di quegli ufficiali piemontesi del primo novecento. Invece era siciliano. Ci aveva detto: «Negli anni ruggenti di Palermo, da tutti i territori della provincia ci fu un assalto sanguinoso verso le ricchezze della capitale.
Luciano Liggio aveva spalancato la strada e dietro di lui era stato un arrembaggio. Il delitto mafioso accresceva dignità civile, moltiplicava miliardi e persino potere politico. Poi sopravvenne la crisi, la strage di Ciaculli, i processi clamorosi, le condanne al confino, i piccoli eserciti si dispersero, i grandi capi furono catturati oppure si sganciarono da Palermo per assaltare aree più vaste in campo nazionale.
Ma la vera modificazione fu la grande crisi economica degli ultimi anni, che ha depauperato le ricchezze facili, paralizzato il settore edilizio, scheletrito i mercati, indotto i capi a concentrare la loro potenza ed efferatezza solo in alcune direzioni dove gli affari erano immensi e potevano pagare, tutti in una volta, i mancati guadagni degli altri settori in fallimento. Allora cominciò il deflusso, l’ondata di ritorno dei mafiosi delusi, dalla città verso la provincia. Di nuovo ridiventò ricchezza quella che era stata ricchezza per decenni e per secoli e che era stata abbandonata prima come impresa economica e quindi come sfruttamento criminale. Cioè la terra.
Cioè queste vallate dove è facile coltivare l’agrumeto, l’orto, il vigneto. Soprattutto il vigneto è un affare per i massicci contributi regionali; il vino delle Rocche di Rau è uno dei più prelibati della Sicilia occidentale. Una salma di terra può costare anche venticinque, trenta milioni, diventa un’impresa eccellente anche il reimpiego del denaro mafioso, il riciclaggio delle taglie e delle estorsioni. Attorno alla terra, agli interessi, alle speculazioni, alla ricostituzione dei piccoli feudi, ai mercati dei prodotti, si è scatenata la lotta secondo la vecchia meccanica mafiosa.
L’uomo può essere ucciso perché resiste ad un affare, si oppone ad una speculazione, concorre con troppa violenza ad un acquisto, conosce troppo, o più semplicemente, atrocemente, perché la sua morte sia di esempio a chi non vuole capire. In questo groviglio ogni assassinio appare dunque quasi inesplicabile.
Muore un certo Zabbia che è incensurato, titolare di una piccola impresa di trasporti, muore Francesco Coniglio impresario di pompe funebri, scompaiono i fratelli Palazzo, Onofrio e Giovanni, agricoltori senza precedenti penali, scompare Sebastiano Puccio allevatore di bestiame, cade l’avvocato Triolo che è anche vicepretore di un paesino.
Un giorno o l’altro bisognerà calarsi di nuovo in fondo all’abisso del monte Busambra.
Una volta le vittime venivano legate vive ad una vacca e poi la bestia veniva inseguita a percosse e bastonate, finché non imboccava quel sentiero e da un salto all’altro precipitava giù in fondo all’orribile spelonca. Forse ora il metodo è più umano: prima li fucilano!»
Il capitano ci ha dato un disegno perfetto, dal punto di vista tecnico, per spiegare come in questo paese, dove in pochi anni furono uccise cento persone, ora si torna tragicamente ad uccidere con la stessa ferocia di una volta. Ma non ci può dare una risposta umana: perché qui a Corleone e non altrove, in qualsiasi altro pur tragico paese siciliano. Solo chi è nato qui, e qui vive, lavora, esiste, ed ha la radice di tutti i suoi interessi umani, può darci una risposta. Siamo qui a Corleone per chiederlo.
© Riproduzione riservata