Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


L’assassinio del sindacalista Rizzotto aveva provocato una violenta reazione in tutta l’opinione pubblica. I vecchi mafiosi convennero di stare quieti finché lo scandalo politico non si fosse placato. Ma Luciano Liggio continuò sprezzantemente a disobbedire. Si sentiva oramai forte abbastanza, aveva la terra, aveva la fattoria, aveva le armi, gli uomini fidati per usarle e soprattutto una fulminea decisione nell’uccidere.

Senza chiedere il permesso a Navarra costituì una società armentizia insieme ad alcuni allevatori e, per rendere più pingui le sue terre, per abbeverare meglio le bestie, deviò il corso del fiume a fondo valle, lasciando senza acqua i giardini che si trovavano più in basso. Una sera nove uomini a cavallo irruppero nel cortile del feudo di Piano della Scala, mentre Luciano Liggio stava dinnanzi all’uscio della fattoria.

Erano tutti avvolti in vecchi mantelli da carabiniere, col cappuccio calato sugli occhi ed i fucili a canne mozze nelle mani. Cominciarono a sparare contemporaneamente: avevano commesso però l’errore di caricare le armi con le cartucce a palla, invece che a «lupara», e del resto Luciano Liggio si attendeva forse quell’agguato. Pur colpito da cinque proiettili che lo sciancarono, riuscì a gettarsi nell’interno della casa e, attraverso un cunicolo che aveva fatto scavare nella roccia, a sbucare dall’altra parte dell’edificio dove aveva nascosta l’auto. I giustizieri, inseguendolo, trovarono solo delle macchie di sangue sulla «trazzera». Era la dichiarazione di guerra con il dottore Navarra.

Una settimana dopo costui si recò in auto in un paese vicino ad ispezionare una condotta dei «coltivatori diretti», insieme ad un giovane medico dell’ospedale, il dottor Giovanni Russo, un povero giovane di vent’otto anni, laureato da due anni, sposato da dieci mesi e padre di una bambina di appena quindici giorni.

Ad una curva dello stradale improvvisamente sbucò un camioncino che investì la «1100» sulla quale viaggiava Navarra e sei uomini balzarono contemporaneamente fuori dal grosso automezzo, armati di vecchi «Thompson» inglesi, mitra Beretta e pistole mitragliatrici tedesche. Spararono tutti insieme. Sull’auto vennero contati trecento fori di proiettili: nel tempo di cinque secondi il dottore Navarra e il dottore Russo vennero stravolti da una ventata di piombo e ridotti a due cenci sanguinosi inchiodati ai sedili dell’auto.

Luciano Liggio era passato al contrattacco: per primo era stato letteralmente scannato il capomafia, poi venne la volta dei suoi uomini più fidati, dei «guardaspalle», dei luogotenenti. I due fratelli Marino e Pietro Maiuri caddero quindici giorni dopo l’assassinio del dottore Navarra. Essi stavano transitando ai cosidetti «quattro canti» di Corleone, cioè nel punto dove le due strade principali del paese si incrociano: era il tardo pomeriggio di un sabato e c’era una grande folla.

Fulmineamente alcuni uomini, con addosso dei vecchi cappotti militari e il volto bendato, vennero correndo dalle strade traverse, armati di fucili a canna corta e cominciarono a sparare. Ricaricarono i fucili e spararono di nuovo sui corpi agonizzanti. Poi si dileguarono. I fratelli Pietro e Marino Maiuri rimasero uccisi senza aver avuto nemmeno il tempo di estrarre le pistole dalla tasca, altre otto persone rimasero ferite in mezzo alla folla dai «pallettoni» della lupara, il selciato del crocevia rimase gremito di cadaveri e corpi insanguinati che urlavano per la paura e il dolore.

Non ci fu uno solo, dei feriti e dei passanti, che dicesse di avere riconosciuto gli assassini. Molti dei feriti non vollero nemmeno farsi medicare in ospedale per non essere interrogati dalla polizia; uno dei testimoni, fermato pochi minuti dopo la sparatoria dai carabinieri e condotto in caserma, disse: «Io non ho visto e non ho sentito niente. Un po’ di confusione, pensai che fosse una zuffa di ragazzi!». Detto questo improvvisamente crollò a terra svenuto e con una macchia di sangue che gli si allargava sotto la camicia. Aveva una pallottola dentro lo stomaco.

Una bambina di due anni che giocava in un balcone, rimase ferita alla testa da un proiettile. Ai carabinieri la madre disse: «Io pensavo che tutte quelle esplosioni fossero le castagnole per la festa della Patrona. Mia figlia per lo spavento deve aver battuto la testa contro la ringhiera. Di quale pallottola andate parlando?».

Nella stanza da letto i carabinieri trovarono tutto l’armadio crivellato di piombo. La donna disse: «Ah, proiettili erano? E vuol dire che da domani la bambina non la faccio più affacciare al balcone!» La strage continuò. Il nuovo «ras» di Corleone aveva condannato a morte tutti gli uomini di Navarra e non aveva tregua nell’assassinio. Fece uccidere Vincenzo Cortimiglia, uno di coloro che avevano partecipato al fallito «agguato» a Piano della Scala.

Incaricato dell’esecuzione fu il «killer» Salvatore Provenzano, un uomo di cui si diceva che, con una revolverata, sapesse centrare una moneta da cento lire a cinquanta metri di distanza. Giovane, alto, con i capelli lunghi e ricciuti, la giacca di velluto, l’andatura indolente, fulmineo nell’uso della pistola: un personaggio tipico. Egli però peccò troppo di presunzione e sottovalutò l’avversario, andandogli incontro con le mani in tasca e con grande spavalderia, sicché estrassero le pistole contemporaneamente, e poiché entrambi avevano la mira fulminea e infallibile, caddero tutti e due morti con una pallottola in mezzo alla fronte.

Il duello avvenne al centro del paese: dopo d’allora i mafiosi rimpatriati dall’America, chiamarono Corleone: «Tombstone». Una cosa da Far West. Poi Luciano Liggio adottò un’altra tattica, ancora più raffinata e crudele. Uno dopo l’altro scomparvero sei mafiosi, tutti e sei del «clan» del defunto dottore Navarra.

Si chiamavano Sebastiano Orlando, Michele Ramondetta, Luca Leggio, Salvatore Reina, Giovanni Trombatore ed infine Antonino Governale, il primo luogotenente di Navarra, che aveva assunto il comando del gruppo mafioso dopo l’uccisione del capo. Scomparve come nelle commedie del primo Novecento. Una sera disse alla moglie ed alla figlia che usciva di casa per comperare le sigarette e fare una capatina al bar. Non tornò più.

La moglie e la figlia lo attesero per tutta la notte, e poi per quarantotto ore consecutive, sedute dinnanzi all’uscio con la faccia divorata dal sonno. I vicini di casa le guardavano da lontano e non dicevano niente, non ardivano nemmeno consolarle. Poi le due donne si vestirono di nero e fu segno che anche Antonino Governale era morto. Di Luciano Liggio nessuno seppe più niente.

Nel suo fascicolo alla Procura della Repubblica di Palermo si ammucchiarono quindici denunce per omicidio, ma quel piccolo contadino zoppo, con il torace imprigionato da un busto di legno, quell’inaudito gracile mafioso che sorrideva sempre, fu inafferrabile.

I verbali giudiziari che ora narrano aridamente le sue imprese lo descrivono certamente come il criminale più astuto e implacabile di tutto il dopoguerra; si diceva che avesse una demoniaca abilità nei travestimenti, che si camuffasse da prete, da agente di polizia, da donna, da americano in vacanza, che vivesse a Corleone, a Palermo, nelle baite disabitate della montagna o negli alberghi di lusso della riviera siciliana.

Possedeva quel grande feudo a Piano della Scala, ma aveva già acquistato anche palazzi, aveva centinaia di milioni nelle banche, aveva cominciato a dominare grande parte del mercato delle aree fabbricabili a Palermo. Sono gli anni ruggenti della mafia. Genco Russo, patriarcale e gelido, domina la remota valle di Mussomeli dove nemmeno i ladri di bestiame ardiscono mettere naso.

A Palermo le bande armate di Pietro Torretta, dei fratelli Greco, degli alcamesi Rimi si trucidano in una sequenza impressionante di assassini, agguati, esplosioni, conflitti; non c’è un settore della vita economica che non sia saccheggiato e sporcato di sangue, la mafia detiene il monopolio della droga, delle ghirlande da funerale, delle case di piacere, degli elettrodomestici, dei voti, degli appalti di lavori pubblici, delle aree edilizie, delle assunzioni nei cantieri e nelle nuove industrie.

Lo Stato è rappresentato da carabinieri che, se sparano per primi, sono imputati di omicidio e vanno in galera, da giudici che sono costretti ad assolvere perché non hanno prove, da parlamentari che sembrano istupiditi dalla paura di perdere qualche migliaio di voti e non poter continuare la carriera politica.

In questo mare di fango sanguinoso avanza la piccola figura pallida, sciancata, del contadino di Corleone; ha comperato altri feudi, ha ucciso fino all’ultimo tutti i suoi oppositori, dovunque egli si accosti tutte le altre bande di malviventi si scostano impaurite, egli ha imparato ormai ad uccidere in tutte le maniere, squartando l’avversario con il tritolo, facendolo fucilare da un plotone d’esecuzione, avvelenandolo, legandolo ad una catena e facendolo morire di fame.

Giuliano uccideva carabinieri e scriveva poesie. Luciano Liggio scanna i rivali e accumula miliardi. È infinitamente più pericoloso. Fu in quei giorni che dall’autocorriera di Palermo, nella piazza centrale di Corleone, scese un uomo malinconico, gigantesco, ancora giovane, con una grande barba da francescano, i capelli venati di grigio, gli occhi azzurri.

Consegnò la valigia ad un agente di polizia che lo attendeva e cominciò a camminare lentamente per tutte le strade di Corleone, dove egli metteva piede per la prima volta. A mano a mano che passava la gente gli voltava le spalle e si allontanava. Era il commissario Mangano, un catanese di Giarre. Un giorno si sarebbero incontrati con Liggio, faccia a faccia. Ora siamo qui, con lui, perché ci racconti come avvenne.

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