Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Un impiegato, scarno, un po’ curvo, ancora molto giovane, una piega di straziante malinconia alla bocca, due penne stilografiche nel taschino, gli occhiali da sole, i denti cariati. Dal tono della voce non si riesce a capire se sia ironico, nostalgico o sadico.

«Tra Comune, scuola, caserma, gli impiegati del paese siamo venti, lo sono proprio di Mongiuffi. Una volta a Catania, in un ufficio, mi chiesero la carta d’identità e l’impiegato dello sportello pareva incantato a leggere la mia carta d’identità. Si mise gli occhiali, poi mi guardò a lungo e mi chiese se ero proprio di Mongiuffi. Chiamò anche alcuni suoi colleghi dicendo: - Venite, c’è uno di Mongiuffi! Il disonesto! Io abito qui come ad un altro capita di abitare a Parigi oppure fra gli esquimesi. Per cominciare io conosco lo scrittore francese Peyrefitte il quale è stato qui a Mongiuffi per scrivere un libro. Volete sapere la situazione del paese? Bene.

C’è un segretario comunale, un vicesegretario, tre carabinieri, otto maestri elementari, il medico condotto, un farmacista e un vigile urbano. Nossignore, netturbino non ce n’è. C’è un contadino che ogni tanto spazza le strade e viene pagato a cottimo. Talvolta però il Comune non ha soldi e il contadino non lavora. Il Comune è povero, ha cinque milioni di debiti. Alle ultime elezioni hanno detto che i problemi di Mongiuffi sono un nuovo edificio scolastico, l’acqua in tutte le case e una strada più larga verso la costa. Balle! Il problema più importante è il fatto delle donne: se uno vuole conoscere una donna deve sposarsi.

Oppure bisognerebbe avere un’automobile e andarsene ogni sera a Mazzarò! Almeno uno potesse leggere. Ma qui non arrivano nemmeno i giornali. Non si vede nemmeno la televisione perché ci sono le montagne, si vedono dello ombre strane. Abbiamo persino costruito un’antenna di dieci metri. Niente! Ci sono venti ragazzi che seguono i corsi di scuola media per televisione, ma debbono regolarsi solo da quello che sentono. Per l’esattezza è il primo canale che si vede male. Il secondo non si vede per niente.

Certo uno potrebbe sempre andarsene da questo paese. Ma qui uno ha la sua casa, la madre e il padre, gli amici. E poi gli impiegati municipali, la guardia, i carabinieri, il medico, il farmacista, i maestri come possono lasciare il paese? Che è un paese buono, questa è una cosa che non bisogna dimenticare. Non c’è un ladro, un delinquente. Negli ultimi venti anni c’è stato solo un furto di galline. Si scoprì che erano stati tre catanesi. Cose da pazzi: avevano speso almeno duemila lire di benzina per arrivare quassù in automobile e rubare otto galline! La cosa più strana fu che proprio loro, i catanesi, si fecero acciuffare subito da quelli di Mongiuffi».

Terzo colloquio. Un vecchio, sù in cima alla montagna, più in alto ancora del paese, dove la strada diventa un sentiero e poi anche il sentiero finisce. Stava seduto sul muretto e guardava immobile il paese e la vallata. Aveva un cappello con le falde larghe, come una specie di panama, una lunga giacca nera, degli strani occhiali da vista e una cravatta azzurra. Doveva avere almeno ottant’anni. Fumava e sembrava schiacciato da un’indicibile tristezza. Pensammo che fosse triste poiché presentisse la morte ed egli ci guardò con rancore come se avesse intuito il nostro pensiero. Parlava stentatamente, con parole che nel dialetto non si usano da decenni: «Io non so niente, io non vi conosco. Non so quanti abitanti fa Mongiuffi. Io sono di passaggio poiché debbo tornare a New York dove ci sono i miei figli, i miei nipoti e la casa. Io sono stato cinquant’anni a New York, che ci sto a fare a Mongiuffi? Andatevene, non vi conosco, non conosco nessuno qui!».

Si mise a fumare, ricominciò a guardare con odio la vallata, come se cercasse un varco da qualche parte. Nel paese rivedemmo quei sei o sette vecchi, quasi nell’identica posizione, l’uno accanto all’altro, sul sedile di pietra. Immobili, muti. Probabilmente non avevano scambiato una parola. Imbruniva. Sulle terrazze o dinnanzi agli usci stavano seduti uomini e donne a gruppetti, ed i bambini con loro. Ci stupì il fatto che non parlassero fra di loro. Né la gente che passava rivolgeva loro la parola o viceversa.

Capimmo una cosa: che vivevano insieme da venti, da cinquanta o da ottant’anni, ognuno secondo la sua età, e si vedevano ogni giorno, si conoscevano l’uno con l’altro, si erano salutati migliaia di volte, avevano trascorso migliaia d’ore infallibilmente insieme e tutte le cose semplici che avevano da dirsi se l’erano dette. Non vedevano la televisione e non potevano leggere il giornale, e dunque non avevano nemmeno a discutere di «studio uno», di Rivera, di Ringo, del maestro Furnari o di Fanfani. Stavano insieme per il pia cere fisico di starci, e basta. E stavano bene, non sembravano infelici, e nemmeno in collera con qualcuno. Avevano una bella sera dinnanzi completamente vuota. Mangiare, fumare, stare in silenzio e infine dormire. Ognuno aveva la sua casa, né avrebbero desiderato farsene un’altra poiché non avrebbero avuto a chi venderla; ognuno aveva la sua parte di terra, il frumento, l’olio, il latte, il vino, il lavoro, venti sigarette al giorno, la sedia, il letto, l’acqua, gli amici e tutto intero il suo tempo.

Nessuno si ricorderà di poter allargare la strada, per fare un ripetitore televisivo sulle montagne, per costruire un cinema; a chi volete che gliene importi di Mongiuffi? Continuano a vivere come trecento o quattrocento anni or sono, come se quel buco nella pietra della montagna fosse ancora otturato e il sentiero finisse là, sullo strapiombo del canyon.

Laggiù il mondo continua a correre, il mondo civile: il lavoro, gli orari, gli appuntamenti, le scadenze, mangiare in un quarto d’ora per non perdere la partita di calcio, presto per vedere le sorelle Kessler in TV, l’autobus è passato, il cinema sta per cominciare, supera quel camion, corri che il semaforo è verde, quell’imbecille perché si è fermato, scusami non ti posso aspettare, ancora un’ora di ritardo e perdi l’affare, è finito il primo tempo, la ragazza se n’è andata, la giornata è finita, ricomincia la giornata, vorrei tanto dormire il pomeriggio, sono dieci anni che non faccio un tressette, l’aereo è completo, cinquemila auto al giorno sulla Catania-Messina...

Dove la valle di Mongiuffi finiva, vedemmo un’apparizione strana: quattro ragazze, quattro contadine che lavoravano nel campo vicino la strada a mietere il fieno. Erano tutte e quattro bionde, alte, rosee e così incredibilmente belle, negli occhi, nelle labbra, nelle gambe, da sembrare comparse cinematografiche. Indossavano gonne azzurre o rosse, camicette sgargianti, e grandi fazzoletti bianchi sui capelli. Parevano davvero le ragazze di un balletto folkloristico. Guardavano e ridevano. C’era un uomo che lavorava con loro, alto, in canottiera e con la falce fece un cenno minaccioso verso il fondo della valle. Fece un piccolo urlo gutturale per indurci ad andare subito via. Via: verso il fondo della valle, verso la costa, verso le belle automobili, i televisori, le donne sofisticate, i motoscafi, le ville, le cose che la gente furiosamente si contende e si ammazza di lavoro per conquistare. E anche se improbabilmente riesce a conquistarsele, non riesce poi ad aver mai il tempo di godersele

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