Il costo che stiamo pagando come comunità globale per non essere riusciti a realizzare l’“altro mondo possibile” elaborato a Porto Alegre e al G8 di Genova, dove siamo scesi in piazza con lo slogan «Voi G8, noi sei miliardi», è riassunto nella constatazione dei movimenti afroamericani insorti vent’anni dopo. Il loro slogan, «I can’t breathe», «Non riesco a respirare», per coincidenza descrive sia le condizioni in cui abbiamo ridotto l’atmosfera sia i sintomi del Covid-19. Il mondo, già finanziariamente fragile e soggetto a tendenze recessive, è caduto preda della pandemia; la responsabilità è antica, politica e condivisa.

Dagli anni Settanta la finanza internazionale rappresenta di nuovo, come negli anni Trenta e in altre fasi, un elemento di instabilità e ostacolo allo sviluppo. Ma le opportunità di riforma dopo la crisi del 2008 sono state sprecate. Nel saggio collettivo Un altro mondo è ancora possibile? edito dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli abbiamo provato a più mani, provenendo da diversi contesti accademici, associativi e sociali, a rispondere a questa domanda. Abbiamo messo in comune saperi di protagonisti di quel movimento, di studiosi e attivisti più giovani che ne hanno raccolto il testimone in movimenti degli ultimi anni come Fairwatch, Cantiere delle idee, Fridays for future, Jacobin Italia, Forum disuguaglianze diversità.

Non utopie ma realtà

Sull’economia pesa una lunga storia di politiche di austerità fallimentari: a fronte dei tentativi di consolidare i bilanci pubblici, dal 2010 a oggi, quasi nessun paese è riuscito a ridurre significativamente il rapporto debito-Pil, pur vedendo un nuovo aumento dell’indebitamento privato. Dagli anni Ottanta, in quasi tutte le più grandi economie, gli investimenti produttivi privati e pubblici calano, nonostante un tendenziale aumento dei profitti totali rispetto ai salari e una altrettanto costante riduzione dell’imposizione fiscale sulle imprese. Il dato forse ancor più sconcertante è che in tutto il mondo si segnala una tendenza alla deindustrializzazione come risultato della fine delle politiche industriali, della deregolamentazione del mercato del lavoro e della spinta verso accordi di libero scambio e investimento che limitano sempre più l’autonomia dei governi.

Per rispondere alla pandemia, aggiungendo al male il peggio, invece di valutare con attenzione quali soggetti nell’economia reale sostenere con i migliori interventi, governi e banche centrali sono accorsi a prevenire la crisi finanziaria inondando i mercati di una liquidità di scarso uso produttivo, per questo scivolata direttamente nelle tasche del piccolo gruppo di rentier che detiene la quasi totalità della ricchezza mondiale. Nel frattempo, il mercato azionario, dopo un iniziale sussulto, ha conosciuto una crescita vertiginosa che ha creato, in pochi mesi e a beneficio di pochi, circa duemila miliardi di dollari. Un reddito simile a quello realizzato nell’intera economia italiana nel 2019. A queste constatazioni vogliamo contrapporre proposte non utopiche ma concrete. Non parliamo però di “buone pratiche”, cioè progetti di limitata portata che i soggetti sociali escogitano come soluzioni tampone delle grandi scelte che si trovano a subire. Ma di buone regole e politiche che è sempre più urgente concepire.

Lavoro e ambiente

Vent’anni dopo Genova serve una nuova agenda e proposte che richiamino un’idea generale di società. Bisogna affrontare i nodi fondamentali dell’economia globale, delle sue storture e ingiustizie. Per esempio limitando il sostegno degli stati, tra le istituzioni finanziarie in crisi, a quelle che hanno qualche funzione di utilità sociale, cioè quelle che finanziano l’economia produttiva. Tornare a sostenere il principio della progressività fiscale facendone una leva per ridurre le disuguaglianze e finanziare politiche capaci di rispondere ai nuovi rischi sociali, spostando il peso prevalente della tassazione dal lavoro alla rendita, e pensando a imposte globali sulla ricchezza. Considerare quella sul salario minimo legale una battaglia centrale per fermare la corsa al ribasso delle condizioni e della forza del lavoro. Il salario minimo può essere uno strumento fondamentale per provare a unificare o ricomporre un lavoro, soprattutto in Italia, non solo frammentato e politicamente invisibile ma disprezzato, isolato, ricattato. “Nessun lavoratore deve essere povero” è un principio strategico di ogni tentativo di immaginare un mondo giusto.

Un ulteriore elemento strategico è la lotta per un Green new deal inteso come grande piano di transizione ecologica. Non riguarda solo l’ambiente e la giustizia climatica; per essere efficace, e per non far pesare il processo di transizione sui settori popolari della società, deve al contempo significare lotta alle diseguaglianze, femminismo, antirazzismo, e deve essere connesso a rivendicazioni di giustizia sociale come il salario minimo, il reddito di base, la riduzione dell’orario di lavoro, la tassazione dei grandi patrimoni e delle produzioni inquinanti.

Il riscatto della politica

Uno dei principi che emergono nel libro è la necessità di una nuova centralità dello stato e delle istituzioni pubbliche, sia come regolatori (e attori) dell’economia, che come produttori e distributori di servizi. Ma non è sufficiente affermare il principio. “Stato” non può significare quel che significava cinquanta anni fa. Stato, in qualsiasi settore, deve significare anche democrazia partecipativa, coinvolgimento attivo dei gruppi sociali nella discussione e nell’implementazione delle politiche. È necessario immaginare quindi una rifondazione democratica e partecipativa per un rinnovato protagonismo economico del settore pubblico. Protagonismo che deve portare non solo a una capacità di programmazione strategica, ma anche alla piena acquisizione da parte dello stato del ruolo di creatore di lavoro di valore, immaginando per esempio la creazione di una grande industria farmaceutica pubblica e un significativo intervento diretto nel settore della salute e della cura delle persone e del territorio.

Nel libro, oltre che di cosa bisognerebbe fare, si parla anche di chi e come può farlo. Chi? I movimenti sociali e i partiti politici, in primo luogo. Dopo le grandi mobilitazioni ambientaliste e femministe, che a livello globale hanno avuto nell’Italia uno dei paesi a più alto tasso di partecipazione, si sono verificate le nuove mobilitazioni del lavoro (rider, Amazon, logistica) e l’estensione delle reti di intervento sociale diretto e di mutuo soccorso. Affermiamo la necessità di un’ampia convergenza, con la proposta di una “società della cura”. Si tratta di lavorare all’acquisizione di forza sociale, convergendo su obiettivi che riguardano la salute del pianeta, delle persone, della democrazia e del vivere associato, dando contenuti e sostanza al cambio di paradigma reso necessario dalle continue crisi economiche e da quella climatica. C’è bisogno di idee, parole e simboli unificanti. Una parola come “socialismo” oggi può ancora avere un senso simbolico unificante solo se rappresenta un avanzamento e una democratizzazione complessive. Democratizzazione non solo politica, ma anche economica (nei luoghi di lavoro) e che riguardi tutti gli aspetti principali della vita sociale, comprese le grandi scelte tecnologiche. È necessario, per chi voglia cambiare il mondo, ricercare la forza e l’efficacia, utilizzando a tal scopo tutti gli strumenti che fanno parte dell’azione politica odierna: l’ideologia, la mobilitazione, la competizione elettorale, l’utilizzo dei media tradizionali e digitali, l’individuazione di leadership. Superando dicotomie sterili come quella tra azione politica tradizionale e innovativa.

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