Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Per prendere confidenza con il nuovo e difficile compito, Caponnetto si giovò della collaborazione di Falcone, che lo mise al corrente dei risultati conseguiti dal “gruppo”.

In particolare, gli descrisse la struttura di Cosa nostra secondo le ancora incomplete conoscenze sino ad allora acquisite, lamentando che all’azione di contrasto del fenomeno mafioso fosse stata di ostacolo una quasi totale omertà, il pilastro su cui da sempre si basavano il potere e la sopravvivenza di Cosa nostra.

E infine lo mise in guardia, avvertendolo che in quel Palazzo avrebbe trovato ben pochi amici. Molto pochi.

Noi avevamo una fiducia totale in Caponnetto. A lui spettava la guida del pool ma aveva in Giovanni il suo punto di riferimento. E visto che eravamo solo in quattro, per lasciare il pool libero di occuparsi esclusivamente di Cosa nostra, Caponnetto si auto-assegnò anche molti procedimenti di altra natura, facendo registrare altissimi indici di produttività.

In un suo libro ha scritto di me che ero il più anziano dei giudici del pool, ma in quel caso si sbagliava. Sono nato infatti il 12 febbraio 1940, Falcone (nato il 18 maggio 1939) e Borsellino (nato il 19 gennaio 1940) erano perciò i più anziani, mentre Di Lello era il più giovane, essendo nato il 24 novembre 1940. Caponnetto aveva ragione, invece, quando diceva che ho sempre cercato di mantenere un ritmo di vita il più normale possibile. Per questo non rinunciavo alle mie partite a pallone e a tennis, nonostante mi esponessero a notevole rischio, facendolo preoccupa- re. Bontà sua, mi accreditava di una solida preparazione giuridica maturata nel corso degli anni e dovuta alle mie “variegate”, pregresse esperienze professionali.

Il suo prezioso impegno è proseguito anche dopo la fine dell’esperienza palermitana. Ritornato a Firenze, si è speso per incontrare gli studenti di ogni istituto per fare memoria del lavoro svolto dal pool e per rendere i giovani partecipi degli stessi principi e valori ai quali si erano ispirati quei magistrati, con i quali manteneva un legame profondo.

Non si era dimenticato del pool e di me. Ricordo, ad esempio, che avendo appreso dalla stampa che avevo depositato, il 5 gennaio 1995, l’ordinanza-sentenza che chiudeva l’esperienza del “suo” pool, volle che gli facessi avere copia degli undici volumi di cui il provvedimento si componeva, per complessive 1.750 pagine. Mi ringraziò commentando: “Ma quanto hai scritto!”

Infine, tengo cara nella memoria una delle sue frasi più belle e cariche di significato: “Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare, di agire da uomini liberi e consapevoli. State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi!

L’avvenire è nelle vostre mani. Ricordatelo sempre!”

Mi piacerebbe che queste parole fossero il testamento morale di “nonno Nino”, come veniva chiamato dai giovani che incontrava nelle scuole.

Dopo quei quattro anni intensissimi alla guida dell’Ufficio di Istruzione, Antonino Caponnetto aveva chiesto di essere trasferito a Firenze, certo che il suo posto sarebbe stato assegnato a Giovanni Falcone, che ne aveva fatto domanda e che vantava una straordinaria esperienza nella lotta alla criminalità organizzata.

Fino all’ultimo, però, avanzò dei dubbi su come sarebbero andate le votazioni al plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, ma fu rassicurato da Falcone che, illuso da falsi amici, era convinto di avere i voti necessari per la nomina. Ma di ciò che è accaduto in quel 1988 parlerò più avanti e a fondo, perché è una delle pagine più nere della recente storia d’Italia.

Nonostante gli omicidi avvenuti fra il 1979 e il 1980 (il capo della Squadra mobile Boris Giuliano, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore capo della Repubblica Gaetano Costa), in realtà sul fronte della lotta alla mafia non era successo nulla.

Qualcuno strillava per qualche giorno e poi tutto tornava come prima.

Ma noi eravamo stufi di stare a guardare e difenderci e così impostammo un lavoro che avrebbe prima o poi dato i suoi frutti. Anche in questo cambiammo la prospettiva, decidemmo che era la mafia a doversi preoccupare, lavorammo sul lungo periodo con costanza, tenacia e la tranquillità di chi sa di avere imboccato la strada giusta.

Però noi non eravamo lo Stato, tutto lo Stato, eravamo solo un piccolo avamposto in una terra pericolosa che aveva bisogno di essere sostenuto. E questo, in verità, successe solo qualche volta.

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