Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


Ma non dovete credere che noi facevamo solo ammazzatine, con Matteo.

Ci davamo anche alla bella vita, perché avevamo i soldi, tanti, della droga, davvero tantissimi, che con i nostri amici americani venivano facili facili. E noi eravamo bravi nella logistica, come quando ci fu il fatto del Big John, un vecchio mercantile che arrivò da noi con un carico di 500 chili e rotti di cocaina – il prezzo: ventimila dollari al chilo – per essere poi lavorata e inviata in tutta Europa, perché avevamo noi l’esclusiva.

Era la notte dell’Epifania e anziché arrivare i Re Magi arrivò questo dono, questa nave cilena battente bandiera panamense, che era partita per noi dai Caraibi. Il più grande accordo criminale di fine secolo: il patto tra Cosa nostra e il cartello di Medellín. Eravamo capaci di tutto.

Il ricordo del traffico delle bionde, che dovevamo gestire con i napoletani, era sbiadito. Avevamo cominciato così, nascondendo l’eroina nei barattoli dei pomodori pelati, ed eravamo arrivati in poco tempo a gestire l’intero ciclo di produzione e vendita della droga, con una raffineria che era un gioiello, messa su nell’84 ad Alcamo.

Un impianto modernissimo, il più grande in Sicilia, una villa e tre capannoni, in Contrada Virgini, nascosto tra le bottiglie di salsa di pomodoro e i topi, dove lavoravamo febbricitanti a turno, senza soste, improvvisando artifizi chimici, grammo su grammo, da vendere poi al dettaglio alle file interminabili di disperati che dipendevano dalla nostra roba, o all’ingrosso nei mercati raggiunti dalle navi che ci aspettavano fuori dal porto.

Se ci avessero intercettati, ci avrebbero sentiti parlare di tropeina e benzoile, di cristallizzazione e di punti di fusione. Altro che Breaking Bad! E poi avevamo gli appalti, e le società, dalla pesca all’edilizia. E pure il contrabbando di sigarette, perché eravamo anche un po’ nostalgici. E il fiore all’occhiello era «Stella d’Oriente», la società ittica di Mazara del Vallo, con Pino Mandalari, uomo di Riina, commercialista e massone.

La massoneria

Ah, questa cosa della massoneria. Quante ne abbiamo lette. Quante analisi, quante supposizioni. I massoni per noi andavano bene, soprattutto se c’era da aggiustare i processi.

Ma gli anziani, che avevano il pudore del denaro, e non sapevano né leggere né scrivere, avevano comunque da insegnarci: con i massoni bisogna prendere e non dare. E quindi non c’era da fare giuramenti, adesioni, aprire logge; non ne avevamo bisogno, noi di fratellanza ne avevamo una, e ci bastava, ma ci interessava far qualcosa insieme, sì.

Prendere senza dare, appunto, era la regola. I massoni andavano tutelati, perché ci potevano servire. Si diceva che il capofamiglia di Mazara, Mariano Agate, era massone, ma per gli altri non c’era nulla di male, purché rispettasse sempre la regola: prendere senza dare. Anche perché i massoni millantavano amicizie influenti, e quindi potevano essere utili.

Per esempio per la strage di Pizzolungo a Trapani, nell’85, quella della mamma e dei gemellini, eh, lì per esempio ci provammo ad avvicinare i giudici con qualche massone; o per il processo per l’omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari.

Ma in realtà anche questi agganci a noi ci servivano a poco. E sapete perché? Perché eravamo dentro le aule di giustizia da tempo, lo siamo sempre stati, con garbo, senza disturbare più di tanto, suggerendo e orientando procuratori, pretori, giudici, giudici a latere, giudici popolari, giudici di pace, anche, certo; e giudici amministrativi, consiglieri di stato, magistrati delle acque, dell’infanzia, della minchia, tutti, e lo facevamo da quando gli avevamo fatto capire, noi, crasti, che quella scritta, la legge è uguale per tutti, quella che campeggia bella italica e fiera nelle aule di giustizia, era rivolta al popolo, agli avvocati, agli imputati, all’uditorio. Ma mica era rivolta a loro.

Loro non ce l’avevano mica davanti, non potevano leggerla. E andava bene così. Come in quel canto popolare siciliano di fine Ottocento: «Chi vuole la giustizia se la faccia, nessuno più oramai la farà per te!». E noi avevamo imparato a farla, la giustizia, e a farci amici i giudici.

Eravamo sempre innocenti, con tutte le prove contrarie. Perché avvicinavamo, parlavamo, aggiustavamo. E perché spiegavamo che dalla nostra innocenza, alla fine, dipendeva anche la loro. I nostri avvocati erano i principi del foro, compravano e vendevano le libertà provvisorie e le buone condotte, le assoluzioni e le perizie mediche. Nessuna porta della camera di consiglio era mai davvero chiusa, per noi.

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