Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Un’immensa piazza coperta di alberi, sembra una foresta e le teste delle statue vi affiorano in mezzo come naufraghi.

Quel palazzo grigio e rosa, con le inferriate da carcere e il cappello da prete scolpito in ferro, è l’arcivescovado, la residenza dell’unico cardinale siciliano, due volte candidato al soglio pontificio; quel palazzo accanto, con la garitta della sentinella, è il comando delle forze armate dell’isola; là dirimpetto c’è il comando siciliano dell’Arma dei carabinieri, quegli schiocchi di poco fa erano i colpi di tacco che salutavano un generale; e quel palazzo all’angolo è la sede della questura centrale, la sede di polizia più efficiente di tutta Italia; il cervello è lassù in una stanza del primo piano, un tabellone elettronico con le luci rosse o azzurre, in meno di venti secondi può scaraventare cento autoradio e cinquecento uomini armati in qualsiasi punto della città.

Infine il più alto, d’un colore giallo antico, con le cupole in cima, il portone più grande, i palafrenieri con la livrea azzurra, è il palazzo dell’assemblea regionale. Lo costruirono i Normanni che erano ispidi, un po’ grossolani, e costruivano soprattutto fortezze poiché avevano sempre nostalgia della guerra; ma gli operai arabi vi aggiunsero civetterie, merli, finestre, ori, arazzi, mosaici, disegni, e gli spagnoli vi accrebbero maestà, i francesi il lusso.

Ora è la sede dei novanta deputati che governano la Sicilia, e dei trecento funzionari che collaborano con loro, tengono conti, curano gli archivi, assistono alle sedute, rubricano le leggi, separano i deputati e li acquietano quando essi vorrebbero picchiarsi. Scaloni di marmo, affreschi, soffitti preziosi, cappelle soffuse di oro, mobili intarsiati seicento anni or sono dai più grandi artisti d’Europa, successione regale di saloni, armature, quadri, altari dove hanno celebrato messa alcuni Santi: i turisti svedesi o americani vi si aggirano adagio, cercando di non fare rumore. In quelle stanze del secondo piano, sorvegliate da silenziosi uomini in livrea, sono gli uffici di funzionari che guadagnano più di un milione al mese, quanto meno gli stessi stipendi dei funzionari del Senato.

Quel commesso sta immobile da un’ora dinnanzi all’uscio, è roseo, educatissimo, vagamente annoiato: guadagna trecentomila lire al mese. Ogni anno la regione spende quaranta miliardi di stipendi per i suoi dipendenti. L’organico comprende 3791 posti dei ruoli centrali, cioè di funzionari ed impiegati che risiedono negli uffici di Palermo, e 2894 posti dei ruoli periferici, cioè di funzionari ed impiegati distaccati in tutte le altre sedi regionali dell’isola. Complessivamente sono 6685 elementi, dei quali solo un migliaio sono stati assunti a seguito di pubblico concorso.

Tutti gli altri 5.600, nonostante una legge del 1958 imponga il concorso per qualsiasi assunzione nell’ambito dell’ente regionale, sono stati invece assunti per chiamata diretta, cioè sulla base di segnalazioni private, aderenze, raccomandazioni. Che questo sia stato il meccanismo è indubbio.

Se infatti c’è un posto di segretario, con uno stipendio iniziale di duecentomila lire e la possibilità dopo dieci anni di andare in pensione con trecentomila lire al mese, ed a questo posto ambisce lei signor Spampinato o Ronsisvalle, forte della sua brava laurea in legge e della sua strenua volontà di studio, in un pubblico concorso lei ha dieci probabilità su cento (non di più) di poter conquistare quel posto invece del signor Montemagno che è parente di senatore, o nell’ultima campagna ha facinorosamente aiutato l’onorevole a conquistare la medaglietta.

Ma se quel posto deve essere aggiudicato per chiamata diretta, lei non avrà nemmeno quel dieci per cento di possibilità. Signor Spampinato o Ronsisvalle, lei non esiste! In un processo alla Sicilia, più che dalle campagne ormai spopolate, dai porti dove le navi non riescono più ad entrare, dalle opere pubbliche rimaste a metà, dalle autostrade che non riusciamo a costruire, dall’acqua che manca, bisogna partire proprio da qui, da questo alto e nobile palazzo e dalle cose che vi accadono.

Tutti gli errori drammatici che da venti anni ci cacciano indietro, paralizzano le opere civili, spopolano la terra, sperperano il denaro di tutti, cominciano qui. Qui è lo sbaglio fondamentale di cui onestamente ci dobbiamo rendere conto. Torniamo al punto di partenza del nostro discorso, a quei quaranta miliardi che ogni anno la regione spende per pagare gli stipendi ai suoi dipendenti, l’ottanta per cento dei quali sono stati assunti per chiamata diretta, cioè in numerosi casi attraverso una garbata selezione di parenti, amici, cognati, galoppini e compaesani.

Alcuni di costoro, comprese le indennità e gli emolumenti vari, hanno uno stipendio mensile che sopravanza spesso il milione di lire al mese, quale nemmeno potrebbe sognare il presidente del Consiglio di stato o delle sezioni riunite della Cassazione, vegliardi di somma scienza che dirigono autentici imperi giuridici o amministrativi.

Ora non è che questi lindi, cortesi, benestanti funzionari regionali che anzi decorosamente ci rappresentano dinnanzi all’opinione pubblica nazionale e straniera, non meritino queste retribuzioni così confortevoli. Molti di loro sono funzionari di grande probità e preparazione professionale. E in fondo i funzionari di un ministero svedese o del dipartimento di stato americano, che probabilmente non hanno la stessa cultura umanistica, percepiscono su per giù gli stessi stipendi.

Solo che quelli guadagnano tali stipendi in una società dove l’operaio medio guadagna almeno trecentomila lire al mese ed ai disoccupati lo stato corrisponde un assegno mensile di novantamila lire, mentre qui in Sicilia un manovale ne guadagna appena settantamila, e ci sono Licata, Mazzarino, Maletto, Palma di Montechiaro, Corleone e cento altri paesi dove i bambini vivono con le mosche agli occhi perché non esiste rete idrica, non esistono fognature, strade, scuole, ospedali.

La sproporzione è gravissima. Una regione che è stata creata per risolvere un problema terribile di miseria, non può partire da uno spreco oltraggioso, da un accumulo di ricchezza per pochi privilegiati.

Avessimo risparmiato non dico la metà di quei quaranta miliardi annui che spendiamo per stipendi, ma solo un quarto, avremmo economizzato dieci miliardi l’anno; in venti anni duecento miliardi con i quali avremmo potuto già costruire tutte le autostrade dell’isola, moltiplicandone le iniziative del commercio e della industria.

Oppure, se vogliamo indicare una spesa più umana, per un bisogno più dolente e tragico, avremmo potuto portare l’acqua in tutte le case della povera gente e costruire le fognature in tutti i paesi miserabili ed i villaggi.

Chi ha visto cos’è veramente una qualsiasi strada di Palma di Montechiaro, cosa è la melma in mezzo alla quale le creature umane camminano, e quanto la loro rassegnazione somigli ormai alla stupidità, chi ha visto questo, capisce quanto tutto ciò sia vero.

La regione, chiamata, anzi creata per risolvere i nostri problemi di miseria, di ignoranza, di solitudine civile, di disoccupazione, di pregiudizio, di ignominiose sperequazioni sociali, avrebbe dovuto essere un esempio di morale amministrativa, di rapidità nell’impiego del denaro e contemporaneamente di cauta prudenza nella destinazione dello stesso, un esempio oltretutto di assoluta correttezza e di libertà. Intendiamo per libertà la costanza, la serenità nel sottoporre al popolo tutti gli aspetti dell’amministrazione per dimostrarne in qualsiasi momento la chiarezza e la equanimità.

Su cinque milioni di siciliani quanti sono coloro i quali conoscono il bilancio dell’assemblea regionale, cioè la destinazione della somma che consente l’organizzazione del personale e degli uffici che ruotano attorno all’assemblea e ne garantiscono i servizi?

È quel documento appunto che spiega, o dovrebbe spiegare, come mai sia possibile che, su un organico di trecento persone, poco più di duecento siano commessi e gli altri siano invece funzionari, gran parte dei quali con la qualifica economica di direttore. In realtà, quando la regione venne creata, si disse che essa avrebbe dovuto avere un nucleo dirigenziale ad altissimo livello poiché i problemi di fondo della riorganizzazione sociale erano gravissimi e potevano essere affrontati solo da elementi di straordinaria capacità amministrativa. E gli elementi migliori, i più capaci e intelligenti, bisogna ben pagarli per averne sicuramente i servizi.

È la stessa questione delle retribuzioni agli scienziati che sfuggono gli incarichi governativi perché mal retribuiti e preferiscono l’impiego privato, se non addirittura l’emigrazione presso i laboratori e le università d’oltre Oceano. Una necessità politica di base esiste dunque almeno in teoria, ma bisogna dar conto di essa al cittadino, spiegargli come e perché il denaro sia speso. Lira per lira!

Non basta l’unanimità di un’assemblea parlamentare; al contrario essa ingenera nell’animo del cittadino il sospetto di una beffa: che esistano cioè degli argomenti sui quali i partiti preferiscono non affrontarsi, per non picchiarsi con troppa violenza. La stessa cosa che avviene a Roma, dove forse si lavora ancora di meno!

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