I sostenitori del taglio del numero dei parlamentari sembrano essersi arresi di fronte all’impossibilità di avere dei buoni politici. Visto che non possiamo avere politici all’altezza – è il ragionamento –meglio averne di meno, almeno non ci costano così tanto. L’affermazione sembra innocua e per certi versi anche attraente, ma i dubbi sulla tenuta della riforma rimangono tutti.

Andiamo con ordine. Davvero l’aver meno parlamentari implica un parlamento migliore? L’applicazione dell’indice Laasko-Taagepara, basato su un’analisi statistica dei componenti delle camere basse dei parlamenti nazionali, assegnerebbe all’Italia 390 deputati, dando così ragione ai sostenitori del Sì. L’evidenza empirica riguardo alla dimensione ottimale di un’assemblea è però molto scarsa. Ci sono alcuni studi sui consigli comunali in Brasile (un articolo appena pubblicato da Britto e Fiorin della Bocconi, un altro di Mignozzetti della New York University e Cepaluni dell’Università di Sao Paulo), la cui composizione è stata modificata improvvisamente a seguito di una sentenza della Corte suprema del 2004. In questo contesto avere consigli comunali più ampi e quindi più rappresentativi della popolazione sembra porti a una migliore erogazione dei servizi pubblici come sanità e scuola, spinta probabilmente dall’attivismo e dalla necessità di rielezione dei molti consiglieri. C’è però anche evidenza che i casi di corruzione aumentino all’aumentare dei componenti del consiglio, ma questo legame è assente se con l’aumento di componenti aumenta anche il peso dell’opposizione, e con essa il suo potere di controllo. In altre parole, l’evidenza empirica sugli effetti della “taglia” del parlamento è scarsa e difficilmente generalizzabile.

Altri elementi invece aiuterebbero ad aumentare la qualità della classe dirigente – che in realtà è la vera malattia della nostra democrazia – ma hanno a che fare con la legge elettorale. Collegi uninominali e sistemi proporzionali “aperti” (in collegi di dimensioni limitate) sono il modo per rendere più diretto il contatto tra eletti ed elettori e quindi migliorare la qualità dei parlamentari stessi. Da studi fatti negli anni passati proprio sull’Italia (si veda tra tutti lo studio di Gagliarducci, Nannicini e Naticchioni del 2011), sappiamo, ad esempio, che i parlamentari eletti con il sistema maggioritario tendono a essere più produttivi dei colleghi eletti con le liste bloccate, e che proprio nei collegi maggioritari i partiti tendono a esprimere persone relativamente più competenti e competitive. Pertanto, l’unico effetto certo ed immediato della riduzione dei parlamentari sarà la pressione sui capi partito per garantirsi i pochi seggi sicuri, senza avere grandi garanzie sulla qualità degli eletti.

Davvero abbiamo troppi parlamentari? In realtà abbiamo troppi parlamentari che danno la fiducia al governo. Tipicamente, i senati (o camere alte) delle altre democrazie europee sono diverse per modalità di elezione e ruolo. Ma allora il problema non è tanto avere 400 deputati e 200 senatori, ma di avere due camere che fanno lo stesso identico lavoro e rappresentano lo stesso elettorato. Sia il buon senso che molti studi (vedasi Facchini e Testa dell’Università di Nottingham nel 2016) concordano nel dire che avere due camere che concorrono con gli stessi poteri alla produzione di leggi non solo allunga i tempi di promulgazione delle leggi, ma riduce anche la probabilità che una legge arrivi a essere promulgata (il cosiddetto status quo bias). Assemblee più piccole sono potenzialmente più agili, più duttili, più facili da controllare da parte di stampa ed elettori ma siamo allora al punto di partenza: la riduzione dei parlamentari funziona se e solo se è accompagnata da altre riforme, altre leggi, altri cambiamenti, senza i quali non riuscirebbe a produrre gli effetti positivi supposti.

E poi c’è quello che potremmo chiamare “effetto Molise”: la Costituzione prevede un Senato eletto su base regionale e una Camera su base nazionale, il che genera due forti distorsioni. La prima è la sovra-rappresentanza di alcune regioni piccole o piccolissime: con il taglio dei parlamentari, il senatore per la Valle d’Aosta rappresenterà 120mila abitanti, i due del Molise ne rappresenteranno 150mila ciascuno, i tre lucani, trentini e altoatesini circa 180mila; tutti gli altri invece si dovranno accontentare di essere rappresentati la metà di un altoatesino o un molisano, con un senatore eletto ogni 300mila abitanti. Certo queste regioni sono poche e piccole, ma sommando tutti i loro senatori (e magari aggiungendo gli spesso imprevedibili senatori eletti all’estero e i senatori a vita) si arriva a più del 10 per cento dell’assemblea.

La seconda distorsione deriva dal fatto che la paucità dei rappresentanti assegnati alle regioni meno popolose finisce per sfavorire (al Senato, ma non alla Camera) i partiti medi e piccoli nelle regioni piccole, ma non in quelle grandi. Un partito che raccolga il 20 per cento dei voti su base nazionale faticherà a eleggere senatori se non nelle regioni più popolose (soprattutto al nord). L’effetto sarà una rappresentanza dei partiti medi (e piccoli) sbilanciata tra grandi e piccole regioni al Senato, e invece più uniforme alla Camera, aumentando la probabilità di avere maggioranze difformi tra le due assemblee.

Si dirà che la legge elettorale si può cambiare, ma torniamo ancora una volta al problema principale: questa è una riforma che può avere effetti positivi solo se accompagnata da molte altre, invisibili all’orizzonte. Queste riforme necessitano di maggior capitale politico che non cambiare due numeri in due articoli della Costituzione.

Emanuele Bracco è membro del comitato scientifico della Fondazione De Gasperi

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