Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Forse il fascino della Sicilia è questo, che percorsi venti chilometri il paesaggio cambia di colpo: correte in una pianura verde, geometrica; con un profumo d’erba e di acque e aggirata una collina, scalato un dosso, improvvisamente vi si spalanca dinnanzi un orizzonte di montagne grigie, silenziose, senza un albero o un filo di acqua, e credete di correre dentro un deserto, la pietra è grigia e gialla, non ci sono voci, nemmeno tane di animali, né un casolare a perdita d’occhio.

Di colpo il mare, una città, due vallate profondissime, un porto, un’immagine che ad una curva non rivedrete più, inghiottita alle vostre spalle come se le montagne si fossero rinchiuse: e giù al fondo ora ci sono misteriose spelonche, fili che corrono da una cima all’altra, i burroni sono gialli, mille metri sotto di voi gli uomini scavano lo zolfo, laghi minuscoli e misteriosi che affiorano, non sentite una voce umana o il rombo di un motore né c’è l’ombra di una quercia, un polverone di mandria per centinaia di chilometri quadrati. Improvvisamente scoprite lassù, sulle vette, altrettanti paesi immobili, pare che vi seguano, che ruotino attorno a voi, le case, le cattedrali, sagome di torri, guglie, campanili; non riuscite a capire per quale strada si potrà mai arrivare lassù: vi accorgete con un brivido che sono cimiteri, sembrano città fantastiche e sono popolate di morti, i paesi sono nascosti invece in un anfratto della montagna, ancora non capite come possa accadere tutto questo, perché i paesi siano miserabili ed i cimiteri fantastici e come la gente riesca a vivere lassù, coltivando quali terre, cogliendo quali frutti.

Ma già cade l’ombra su di voi, buia, verde, correte in un bosco, boschi uno dopo l’altro, foreste a perdita d’occhio, un treno minuscolo che passa laggiù e scompare insieme al torrente. Così cominciate a pensare di viaggiare dentro una specie di continente nel quale sono radunati, ma caoticamente tutti i panorami del mondo, il mare, i boschi, le spiagge, i deserti, le pianure, le montagne, fiumi, cimiteri, paesi. E tutte le razze, biondi, beduini, giganti, pigmei, bruni, mansueti per vocazione e delinquenti per istinto, gente che sperpera per divertimento o che accumula per avarizia, rassegnati e ribelli. Fate venti chilometri e cambia di colpo anche il panorama umano. Una metamorfosi impressionante, di colpo sbucate sull’altra faccia della terra.

Ad Enna anche i contadini stanno seduti in ordine geometrico, sono docili, silenziosi, attraversano la strada solo sulle strisce pedonali; a Palma di Montechiaro arrivate invece con il cofano dell’auto ad un centimetro dalla gente che gremisce letteralmente la strada e ci discute in mezzo; educatamente toccate con la punta del cofano le natiche della gente e colui che è sfiorato si volge lentamente con uno sguardo carico di indifferente disprezzo: poi ricomincia a parlare e semmai marca lievemente le reni perché la sagoma della vostra auto possa appena percettibilmente passare.

A Piazza Armerina invece vedemmo la gente sui marciapiedi, immobile, e un crocevia col semaforo al quale non passava in quel momento alcuna auto e c’era solo un vecchio massaro a cavallo di mulo che attendeva pazientemente che il semaforo diventasse verde. Ecco, avevamo percorso una pianura gialla e soffocante, dove non c’era una sola voce umana o un filo d’erba, nemmeno il latrato di un cane, un raglio, un fruscio di acqua, le pietre erano così bianche e spolpate che sembravano davvero scheletri e crani di cammelli, e improvvisamente, ad una svolta, proprio come un sipario verde che si abbattesse su di noi, ci immergemmo in un bosco sconfinato, di sotto cominciarono a spalancarsi vallate che fumigavano di vapore acqueo fra gli alberi: boschi, foreste dovunque e senza fine. E Piazza Armerina ci apparve là in mezzo con una immensa cupola verde al centro, le chiese gialle, strade, piazze, palazzi che si affondavano vertiginosamente verso il fondo della valle e sparivano laggiù fra gli alberi.

Una piazza con una gigantesca statua di bronzo del generale Cascino e dinnanzi a lui tanti piccoli fantaccini di bronzo verde che si arrampicano sulle pietre col pugnale fra i denti, poi un groviglio di strade medioevali, un’altra piazza minuscola, un palazzo grande ed immobile, così maculato d’erbavento da sembrare avvolto dalla muffa.

Non ricordavamo di avere visto mai altrove una atmosfera così remissiva. Piazza Armerina ci è apparsa una città singolare per aspetti diversi: per quei boschi incredibili entro i quali è sprofondata come in una coltre, per una sua bizzarra leggiadria, una specie di civetteria, cioè una città immersa in un autentico paesaggio svizzero che però non ha tetti rossi, né facciate di legno, ma invece è tutta una fioritura medioevale, scorci e vie ripidissime, le prospettive delle chiese incredibilmente lavorate come nelle tombe gentilizie, colonne, cupole, pinnacoli e dovunque quella pietra antichissima, docile come la creta, gialla, porosa, morbida. Soprattutto ci parve immersa, oltre che nei suoi boschi, in una sua stessa atmosfera statica, un’immobilità di tutte le cose dentro il paesaggio, una lentezza dei suoi abitanti anche nei gesti, nei movimenti, una specie di rassegnazione definitiva.

Quel contadino fermo quietamente con il mulo dinnanzi al semaforo rosso ad un crocevia dove non passava nemmeno un’auto, quei signori dignitosi seduti dinnanzi al circolo, un vecchio che guardava per dieci minuti un manifesto, i bambini che invece di giocare ragionavano assorti su uno scalino. Non una città collerica come avevamo visto Modica, divorata da un’ansia di costruire cose tutte incomplete, di produrre quattrini, di avvicinarsi a qualcuno, Catania, il mare, Ragusa; nemmeno una città tetra, quasi solenne nella sua miseria come invece ci era apparsa Licata, brulicante di sporcizia, di bambini, di carri abbandonati, un corpo civile in putrefazione. Ma proprio una città impercettibilmente felice e perciò mansueta, nella quale però era accaduto un irrimediabile sbaglio e qualcosa si era fermata: tutto era rimasto quieto, ma immobile, dolorosamente stupefatto.

Una popolazione fuori dai problemi dell’Isola, anzi distaccata dagli stessi problemi della provincia in cui vive. Piazza Armerina è rimasta tradita da quel fenomeno che potremmo chiamare «la distribuzione dei ragionieri». Una storia patetica. Esistevano fino a vent’anni or sono in Sicilia alcune cittadine che, senza esser capoluoghi, avevano però straordinario decoro culturale ed economico, assicurato dal fatto d’essere degli epicentri di cultura scolastica.

La cultura li salvava, anzi li isolava dalla miseria circostante. Di solito (e l’imponenza, il fasto architettonico ancora lo sottolinea) questi centri di studio corrispondevano a nuclei di quella antica nobiltà terriera, straordinariamente prolifica, che aveva influenze a tutti i livelli della vita pubblica, ambizioni adeguate ed infine un sospettoso, possessivo amore per la propria città nella quale identificava la vecchia baronia ed i suoi stessi interessi economici ed elettorali.

Attorno a questo polo di piccola potenza provinciale, si venivano così addensando le scuole, i licei, gli istituti magistrali e tecnici, che calamitavano naturalmente la popolazione studentesca di dieci o quindici comuni: ed insieme agli studenti una piccola burocrazia di professori, insegnanti e bidelli.

Tre o quattromila studenti significavano a loro volta altrettanti posti letto che la cittadina allestiva in pensionati e famiglie private, significavano una continua iniziativa commerciale e professionale per l’intera economia del centro, derrate alimentari, vestiti, libri, scarpe, medicinali, indumenti.

Piccoli ruscelli di denaro, impalpabili ma continui, affluivano verso la cittadina per pagare tutte queste cose, denaro sudato, risparmiato, lesinato in mille famiglie lontane dove si alimentava l’ambizione di avere un figlio maestro elementare, ragioniere, avvocato, medico, professore.

Era il tempo in cui si diceva: mantenere il figlio agli studi, e la frase aveva un valore reale, quasi drammatico, poiché mandare un ragazzo per dieci anni in un’altra città e pagargli ogni cosa, dal cibo alle lezioni private, importava quasi sempre una somma di sacrifici umani e di rinunce sociali.

Un giovane, un figlio di piccoli agricoltori o di artigiani della provincia, che riusciva a conseguire un diploma o addirittura una laurea, lasciava dietro di sé una famiglia esausta, magari sorelle che avevano dovuto rinunciare a sposarsi, genitori che a sessant’anni erano già vecchi e non avevano visto niente della vita. Da migliaia di piccole famiglie sepolte nel territorio della provincia venivano perciò verso il centro di studi rivoli di denaro e la cittadina, paternalistica, benpensante, erudita, in compenso restituiva regalmente ogni anno alla società, (che cercasse ognuno di guadagnarsi da vivere secondo il suo merito), quattrocento o cinquecento ragionieri, maestri, geometri. Piazza Armerina era così una cittadina nobile, campagnola, erudita, contenta del suo stato.

Aveva gli studenti e le scuole che le fornivano metà del suo reddito, aveva castagni, ulivi, carrubi nelle sue campagne e anche quel poco di frumento che bastava; aveva armenti, pecore, lana, latte, formaggio e tutti i paesi più miserabili della provincia erano ad almeno trenta chilometri di distanza, non potevano turbare la sua rispettabilità.

Poi improvvisamente ci fu la spartizione dei ragionieri, cioè la scuola cominciò a penetrare lentamente nel tessuto sociale dell’isola, anche i piccoli centri ebbero le scuole medie ed il ginnasio, quindi le sezioni distaccate del magistrale e degli istituti tecnici, poi i licei. Era un processo di naturale evoluzione civile ma Piazza Armerina, come altre dieci o quindici città siciliane, si sentì lentamente mancare il terreno sotto i piedi.

Quasi contemporaneamente accadde un altro fenomeno. La gente di Piazza Armerina cominciò a piantare boschi, a moltiplicare quelli che aveva, ad estendere le sue foreste, a trasformare la sua agricoltura. Forse non si è sempre detto che la piaga dell’agricoltura siciliana, la mancanza di acque, l’erosione dei terreni, la miseria delle colture cerealicole, dipendano proprio dalla distruzione delle foreste siciliane?

La foresta dilata il paesaggio, mitiga il clima, trattiene la terra, ne imbeve di buona acqua le profondità, moltiplica la selvaggina e soprattutto consente una produzione agricola che è suscettibile di una gigantesca valorizzazione industriale: cioè il legno. Così la gente di Piazza Armerina cominciò a piantare alberi, querce, castagni ed eucaliptus dovunque, fu una specie di frenesia, sparirono armenti, pecore, mandrie, ovili, campi di grano e dovunque, per decine di chilometri quadrati, la terra si coprì di alberi sempre più alti, sempre più fitti.

E, a mano a mano che gli alberi crescevano e diventavano centinaia di migliaia, milioni di alberi, la popolazione cominciò pazientemente, mitemente, secondo il suo costume, ad aspettare il prodigio che i trattati di economia, le conferenze dei docenti di agraria e i comizi degli onorevoli avevano preannunciato, cioè che arrivassero gli stabilimenti dell’industria per sfruttare quella enorme ricchezza del legno; fabbriche di mobili, di cellulosa, di carta, di fibre, di tessuti.

Aspettavano. Soprattutto quei sei o settemila braccianti e contadini e pecorai che avevano sperato di diventare operai specializzati negli stabilimenti e che intanto avevano perduto il loro lavoro. Ogni tanto qualcuno di loro era costretto ad emigrare, poi gli emigranti divennero centinaia, ormai sono più di settemila… Il paese si è spopolato e industrie non ne sono arrivate.

Le cartiere le hanno costruite lungo la costa, dove ci sono gli acquedotti per uso industriale, dove c’è qualche strada per trasportare la merce fino ai porti d’imbarco. L’acqua e le strade: quella che è la tragedia di fondo di tutta l’isola, per Piazza Armerina ha addirittura il sapore di una beffa. Tutte le cose che si potevano fare e non si faranno, i sacrifici, la pastorizia e l’agricoltura distrutte, una grande iniziativa civile, vent’anni di lavoro, il coraggio di sovvertire tutta l’antica struttura economica: tutto inutile! Piazza Armerina offre davvero l’impressione di una cittadina dove ci sia stato un irrimediabile sbaglio che abbia fermato tutto in una dolorosa stupefazione.

Come di qualcuno che abbia puntato tutto su un numero o un colore, con la sicurezza di vincere, e abbia perduto tutto in una volta. Poiché sono miti e remissivi hanno ricominciato ad aspettare. I settemila emigrati spediscono i loro risparmi alle famiglie e consentono loro di sopravvivere: qualche migliaio di studenti arriva ancora dai piccoli centri dell’Ennese e del Nisseno; alla periferia del paese si sta costruendo un piccolo opificio che darà lavoro ad appena trenta operai; arrivano cinquecento turisti al giorno per trascorrere una giornata nei boschi e visitare i favolosi mosaici della villa romana di Casale, con le ballerine in bikini; ma ci sono solo centoventi posti letto in tutta la città, non c’è un campo di tennis, un camping, una galleria d’arte, un teatro, un dancing; perciò i turisti arrivano in questo favoloso Eden nel cuore della Sicilia e subito se ne vanno lasciando miserabili spiccioli.

Nel paese sono rimasti i proprietari dei boschi, qualche migliaio di agricoltori, duecento minatori che lavorano nelle zolfare di Baccarata e Floristella, gli artigiani, i bottegai, i commercianti, gli insegnanti degli istituti scolastici, gli impiegati del Comune, i funzionari dello Stato, e duemila disoccupati.

Anche Piazza Armerina sostanzialmente, come centinaia di altri agglomerati siciliani, è soltanto una popolazione che non produce e che consuma il reddito altrui. E come in cento altre città siciliane, aspettano: che la Cassa del Mezzogiorno costruisca la diga sul torrente Olivo per le acque industriali, che venga realizzata la strada di scorrimento per Gela, che la Regione approvi il progetto per un grande parco fra i boschi, con alberghi, piscine, bungalow, fontane, cerbiatti, scoiattoli, stand di tiro a volo.

Nel frattempo educatamente aspettano, vanno al circolo di cultura, al bar, passeggiano, ammirano i loro patetici boschi. Poiché hanno quello che basta, hanno anche tutto il tempo per aspettare, più educatamente che altrove, ma ognuno per conto suo. Nessuno ha mai pensato che una cartiera o una fabbrica di essenze o un albergo, un impianto turistico si potrebbero cominciare a costruire con i capitali stessi di coloro i quali sono i padroni dei boschi. Mi dicono che qui ci sia un nobiluomo, ora non ricordo se barone o conte ricchissimo, il quale è andato ad investire due miliardi in un’iniziativa industriale nel Sud America.

Arrivammo per visitare un museo. Erano esattamente le ore tredici meno tre minuti. «Chiuso!» ci disse il guardiano. Obiettammo che volevamo solo fare alcune fotografie, che venivamo da lontano, che c’erano anche dei turisti che sarebbero voluti entrare. Il guardiano era un ometto di sessant’anni, piccolo, bruciato, con la canottiera. Inarcò le sopracciglia: «Chiuso!» ripeté. Insistemmo e ci mozzò il discorso con un diniego della testa. Chiuse il catenaccio.

«Debbo andare a mangiare, ho la pasta a tavola!». Era affamato ed ironico: «Che fa? faccio raffreddare la pasta?». Restammo dietro il cancello noi e quei turisti che non sarebbero certo più tornati (e avrebbero certo raccomandato ai compatrioti di non venire); l’ometto se ne andò verso i suoi spaghetti. Gli spaghetti caldi, con le fette di melanzana in cima. Erano nel suo diritto e, in fondo, nella sua convinta coerenza di individuo siciliano. La bilancia commerciale del turismo è una cosa che non si vede. Gli spaghetti sì!

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