Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


La causa umana fondamentale della mafia è la miseria senza vie d’uscite, cioè la miseria che riunisce l’ignoranza, la malattia, la superstizione, la sporcizia, la violenza. Anche le cose futili dell’esistenza diventano essenziali.

In un paese dove ogni individuo maggiorenne ha la sua possibilità di lavoro ben retribuito, non si troverà mai un uomo disposto ad uccidere per centomila lire o per un milione. Per uccidere un uomo si chiederanno dieci o quindici milioni. Non è una questione di onestà, è una questione di prezzo per il delitto.

A Corleone, un paese devastato dalla miseria, dall’ignoranza, dalla disoccupazione, si trovavano centinaia di uomini disposti ad uccidere per potere risolvere il problema della vita. Oltretutto la violenza è sempre una maniera per reclamare quel diritto alla vita di cui ci si sente defraudati. Se non ci fossero gli uomini poveri, disperati, analfabeti disposti ad uccidere, non ci sarebbe la mafia.

Poiché il mafioso autentico, il signor mafioso, quello che tratta a livello dei deputati e degli assessori, che si accaparra le aree edilizie, che organizza il contrabbando, non uccide mai di persona. Altri uccidono per suo conto mentre egli sta seduto ad un circolo di persone civili o partecipa ad una cerimonia patriottica accanto al sindaco ed all’onorevole. Il fondamento umano della mafia è dunque la miseria. ù

Il fascismo si illuse di stroncare la mafia eliminandone a manganellate, fucilazioni, deportazioni, le persone fisiche, ma la radice restava intatta. In vent’anni di democrazia le cose non sono cambiate molto. Il fondamento umano della mafia è la miseria, ma il suo agente è la ricchezza, la ricchezza sporca, la confusione della ricchezza, la disputa, l’orgia, l’accumulo della ricchezza.

La mafia si contende denaro, montagne di denaro. Anche quando essa sembra lottare per conquistare i voti politici dei cittadini, in realtà essa lotta per il denaro, per gli appalti che il deputato potrà garantire, per le raccomandazioni che potrà accogliere, per l’impunità che potrà promettere, per le informazioni, le licenze edilizie, le concessioni di monopolio. I mafiosi autentici sono a questo livello, sono i «ras» invulnerabili, corazzati da cento amicizie, da mille alibi, da una coorte di conoscenze potenti, da muraglie di denaro con cui possono comperare tutto, dalla compiacenza di un funzionario alla mira infallibile di un sicario.

Ora la storia di Corleone è la storia esemplare della mafia, poiché essa si identifica con la storia di Luciano Liggio. Il quale a sua volta è un mafioso esemplare nella carriera, dalla miserabile disperazione all’orgia della ricchezza.

Luciano Liggio era figlio di contadini analfabeti, e contadino egli stesso, ma gracile, ammalato, debole, senza nemmeno la forza fisica, la possibilità di lavorare da bracciante nelle campagne. Era niente. E di questo egli non aveva colpa: era nato in un luogo della terra dove il sospetto dell’animo umano, l’avarizia e la stupidità dei governanti, non concedevano agli infelici che la rassegnazione al destino.

Dire che Luciano Liggio, e tutti coloro come lui che uccidono, estorcono, rubano, costituiscano una depravazione della natura umana nel Sud, è stupido. La mafia c’è perché ci sono i poveri, ed i poveri esistono perché tutti gli altri, da centinaia di anni, abbiamo fatto poco o niente per evitare che ci fossero. Taluni affermano che una proposizione del genere è comunista. Noi diciamo invece che è una verità che spesso la paura, la reticenza borghese concedono in monopolio ai comunisti.

Luciano Liggio, dunque, non sapeva fare nemmeno il falegname, né il calzolaio, né il garzone da barbiere. Né aveva la licenza elementare per tentare di diventare bidello o usciere. Era niente e la gente lo trattava come tale. Egli cominciò così, come un uomo che è soltanto capace di uccidere e basta. C’era nella zona un feudo che cinque campieri avevano deciso di acquistare.

Avevano bruciato il raccolto, tagliato gli alberi di limoni, reciso i garretti alle bestie della mandria, avvelenato i cani, e alla fine si erano presentati al proprietario: «Sappiamo che il vostro feudo non rende e vorreste venderlo!». Gli offrirono una somma risibile. Prima che l’atto si stipulasse dal notaio uno dei cinque campieri, mentre percorreva una trazzera, si prese una fucilata alla nuca, il cavallo impaurito trascinò il cadavere per cinque chilometri poiché nessun contadino osava fermarlo e testimoniare sull’identità del morto.

Alcuni giorni dopo Luciano Liggio si presentò al proprietario del feudo. Disse: «Io prendo il posto della buonanima!». Non si fermò mai per quindici anni. Al momento in cui fu catturato da una compagnia di agenti comandati dal commissario Mangano, aveva una proprietà di diversi miliardi: lentamente, fatalmente il piccolo contadino zoppo aveva sterminato i ras che prima comandavano, aveva decimato gli avversari, aveva sottomesso tutto il territorio di Corleone ed aveva invaso quello di Palermo, e qui aveva continuato la strage, uno ad uno aveva conquistato i monopoli nel traffico degli agrumi, nel controllo dei flipper, nel contrabbando degli stupefacenti; era ubriaco di denaro.

La sua carriera mafiosa era un arco completo ed esemplare: dalla condizione di killer che comincia ad uccidere per sopravvivere, alla condizione di ras che accumula ricchezza strappandola agli altri. Gli fu fatale l’errore di Pietro Torretta.

Pietro Torretta era un suo avversario nella lotta per l’accaparramento delle aree edilizie, un piccolo uomo con la faccia da lupo, vestito sempre di una giacca nera, un berretto da sensale e una sciarpa di seta gialla e rossa al collo. Era ricchissimo, potente, rispettato, temutissimo, insaziabile. L’unico che osasse lottare contro la dilagante forza di Liggio. I suoi uomini avevano una diabolica abilità nell’uso del tritolo: rubavano una Giulietta, la imbottivano di esplosivo e la depositavano dinnanzi al portone di casa del destinatario.

Un giorno fecero un capolavoro di “artificeria“, una Giulietta che aveva nel bagagliaio un quintale di dinamite e non poteva essere disinnescata in alcun modo. Aveva la potenza di una bomba d’aeroplano. Ma, strada facendo, una delle gomme della Giulietta si afflosciò, su una trazzera della contrada Ciaculli, e gli stessi killer, in un attimo di paura, telefonarono ai carabinieri perché provvedessero a rimuovere quell’auto abbandonata.

Vennero carabinieri, commissari, ufficiali e cinque soldati della direzione di artiglieria per controllare la vettura e scoprire se vi fosse esplosivo. Aprì il cofano il tenente dei carabinieri Malausa, un ragazzo piemontese che era stato ufficiale dei paracadutisti: ci fu una fiammata alta cinquanta metri, lo spostamento d’aria demolì le fabbriche tutt’intorno, nel cratere dell’esplosione si dispersero i resti umani di otto uomini, carabinieri, soldati e agenti. Trovarono solo una pistola, un dito con un anello nuziale e un berretto da ufficiale.

Ebbero paura anche i deputati eletti con i voti della mafia, ebbe paura l’intera Nazione. In Italia accade sempre così: per anni la coscienza civile è umiliata dall’imbroglio, dalla sospettosa indifferenza del cittadino, dall’interesse dell’uomo politico che affannosamente tende solo alla conservazione dei suoi voti. Poi c’è un attimo di dolore che sconvolge tutto. Così accadde dopo la strage di Ciaculli.

A Corleone arrivò il commissario Mangano: un siciliano gigantesco, incorruttibile. Leggeva libri di filosofia e le poesie di Byron. Con un pugno avrebbe potuto sfondare la testa ad un uomo.

«Luciano Liggio aveva quasi il monopolio nello sfruttamento di tutte le macchinette, i bigliardini ed i flipper della provincia, ci racconta Mangano. Migliaia di macchinette che producevano continuamente, ininterrottamente denaro. Ognuna di esse dava un reddito di settemila lire al giorno. Se le macchinette erano mille, il reddito quotidiano era di sette milioni. Oltre un miliardo l’anno. Liggio aveva una mano dovunque: nel contrabbando degli stupefacenti che approdavano nell’isola dalle coste del Nord Africa, nelle aree edilizie che si estendono alla periferia di Palermo, nel commercio del grano.

Oltre al feudo di Piano della Scala aveva acquistato altre grandi estensioni di terreno, aveva fabbricato palazzi che erano di sua proprietà, aveva comperato una villa che vale circa ottanta milioni, molti suoi parenti avevano un’auto di grossa cilindrata a disposizione. Non era ricco lui soltanto, erano ricchi tutti coloro che lavoravano per lui, che gli coprivano le spalle, lo ospitavano, lo curavano. Dapprincipio la sua potenza era quella fatale, fulminea decisione ad uccidere. Alla fine era il denaro; quell’uomo grondava denaro da tutte le parti. Guadagnava più lui che qualsiasi grande industriale del Sud...».

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