Inizia la terza stagione di Ellissi, il podcast realizzato da Amnesty International Italia ed Emons Record in collaborazione con Domani. Anche questa volta i testi sono di Giuseppe Paternò Raddusa e l’attore Gianmarco Saurino sarà la voce narrante delle tre storie al centro della nuova stagione, quelle di Mauro Guerra, Gabriele Sandri e Davide Bifolco. Tutte vittime di uomini in divisa.

Gianmarco Saurino, l’ultima stagione di Ellissi era su temi internazionali. Cosa ascolteremo, invece, questa volta?

Negli anni scorsi abbiamo raccontato storie di diritti violati in varie parti del mondo. Ogni episodio aveva anche una parte positiva, per dimostrare quanto il lavoro di organizzazioni come Amnesty International sia concreto. Spesso ci chiediamo “cosa posso fare io?” — e sostenere realtà del genere significa davvero cambiare le cose. Quest’anno abbiamo deciso di rendere i racconti più vicini a chi ascolta. Il tema comune è il diritto violato dalle forze di polizia, cioè da quelle stesse autorità che dovrebbero proteggerci. Le storie che racconteremo sono quelle di Mauro Guerra, Gabriele Sandri e Davide Bifolco, tre casi diversi ma legati dallo stesso filo.

Qual è il filo rosso che tiene uniti questi tre casi?

Il dolore, certo. È qualcosa che non si attenua mai, anche dopo dieci o quindici anni. Ma quello che più le accomuna è l’insoddisfazione verso la giustizia. Tutte le famiglie sentono di non essere state protette. Non solo da chi ha materialmente ucciso i loro cari, ma dallo stato stesso. C’è una frase del padre di Davide, Gianni Bifolco, che mi ha colpito: “Tutti possono sbagliare, anche i poliziotti, perché sono esseri umani. Ma lo Stato non può sbagliare”. Ed è proprio questo il punto: non è solo una tragedia privata, ma una ferita pubblica, che riguarda tutti.

Come mai la scelta di raccontare queste tre storie?

Mi interessava superare la divisione politica che spesso accompagna certi temi. Parlare di abusi di potere o di violenza da parte delle forze dell’ordine viene subito associato a una parte politica. Invece io volevo un racconto universale. Per questo ho scelto due persone come Gabriele Sandri e Mauro Guerra, che erano di destra. I loro familiari raccontano che proprio quella loro identità li ha resi ancora più soli: la sinistra non li ha sostenuti perché “erano di destra”, e la destra non poteva farlo perché avrebbe significato criticare la polizia. È un paradosso fortissimo, che mostra come certi diritti, in Italia, restino appannaggio di una parte. Ma i diritti umani non sono di sinistra o di destra. Sono di tutti.

Per il podcast hai vestito i panni del giornalista intervistando le rispettive famiglie nelle loro case

È stata la parte più emozionante. Nella prima stagione di Ellissi raccontavo storie che avevano spesso un legame personale con me. Nella seconda ho cercato di mantenere quel tono empatico. Ma in questa terza stagione volevo andare oltre: parlare direttamente con le persone. Entrare nelle loro case, vedere le foto, i quadri, la tesi di laurea di Mauro Guerra… tutto questo mi ha permesso di capire davvero chi erano. E credo che se io sono riuscito a entrare nelle loro vite, anche chi ascolterà potrà farlo. Per me le persone sono il cuore del racconto: io non sono che un tramite tra loro e il pubblico.

Abbiamo un governo che inasprisce la repressione attraverso politiche securitarie come il dl sicurezza.

La scelta di fare questo podcast nasce anche da lì, da questo clima politico. Penso che aumentare il numero dei reati non serva a niente: è solo uno slogan da campagna elettorale, un modo per dire “stiamo facendo qualcosa” quando in realtà si agisce solo sulla superficie. Le cose vere si cambiano con l’educazione civica, nelle scuole. Penso a un tema come i femminicidi: nel 99 per cento dei casi nascono da una cattiva gestione dell’affettività. Eppure questo governo ha deciso di ridurre o rendere facoltativi i percorsi di educazione all’affetto nelle scuole. È un errore gravissimo, perché quelle scelte educative — o la loro assenza — hanno conseguenze reali nella vita delle persone. E se continuiamo a pensare che i femminicidi siano causati dai “raptus”, allora significa che non vogliamo vedere la realtà per com’è.

Negli ultimi mesi molti artisti si sono esposti su Gaza. Alcuni sono stati criticati per non averlo fatto. Cosa ne pensa?

Io credo che un artista debba esporsi. Sempre. Ho trovato molto ipocrita il dibattito nato negli ultimi tempi: chi dice “io non parlo”, chi invece viene accusato di farlo troppo. La questione palestinese, per esempio, non nasce il 7 ottobre. Chi ha a cuore quella causa ne parlava molto prima. Però ho anche visto che molti, improvvisamente, si sono risvegliati, come se l’attivismo fosse diventato una tendenza. È una contraddizione, ma credo che — anche se se ne parla male — è meglio parlarne che tacere. Per me fare l’artista significa essere politico, non nel senso dei partiti, ma nel senso ateniese del termine: la polis, la piazza, il confronto civile. Mi dà fastidio quando sento dire “tu fai l’attore, non parlare di politica”. La politica non è dei politici. È nostra. Esporsi comporta rischi, certo. Ma se ognuno di noi parlasse almeno di un tema che gli sta a cuore avremmo un paese migliore. La politica, come la intendo io, è la capacità di prendersi cura della vita collettiva. E questo, per chi fa arte, è un dovere.

Come vedi la crisi del settore dello spettacolo?

Penso che questa crisi sia il risultato di una precisa scelta politica: quella di trattare la cultura come se appartenesse a una parte, come se fosse “di sinistra”. Il cinema, il teatro, la musica — non sono di nessuno. Sono del Paese. E fanno bene alle persone. È vero, in passato si sono spesi male molti soldi, ma questo non giustifica i tagli indiscriminati. Oggi per un giovane autore fare un film è un’impresa quasi impossibile. Stiamo rischiando di perdere un’intera generazione di registi, attori, tecnici, ma anche di cittadini che attraverso la cultura imparano a pensare in modo critico. La cultura non è un lusso. È la spina dorsale di una democrazia. Tagliarla vuol dire tagliare il futuro. E non c’entra nulla con la sinistra o la destra: ha a che fare con l’identità e la salute di un Paese.

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