10 ottobre 1945: Lidia Cirillo spara a Sydney Lush, un ufficiale inglese con il quale aveva una relazione. Lui le aveva promesso di sposarla, ma aveva già una moglie. Fatto che incide sulle decisioni dei giudici
È una mattina umida, quella del 10 ottobre 1945 a Roma. Lidia è uscita di casa presto e si è diretta all’Eur, un quartiere considerato periferico, il cui acronimo sta per Esposizione universale di Roma, che avrebbe dovuto svolgersi nel 1942 ma è stata fermata dal sangue della Seconda guerra mondiale.
Doveva essere il simbolo dell’orgoglio fascista, ma la caduta del regime e la Liberazione lo hanno trasformato nel quartier generale delle truppe alleate nella Capitale. Lidia Cirillo si presenta proprio qui: all’ufficio di collocamento degli ufficiali inglesi. Chiede di parlare con il capitano Sydney Lush e in guardiola e negli uffici la conoscono tutti, quindi la fanno entrare senza alcuna formalità.
Apre la porta dell’ufficio senza bussare. Lui sta parlando con un collega e si interrompe, la guarda stupito e poi le dice qualcosa. Anche lei alza la voce e non lo lascia finire di parlare.
Tre colpi di pistola, estratta dalla borsa che Lidia teneva al braccio, e Lush stramazza al suolo. Poi lei rivolge la pistola contro se stessa e preme di nuovo il grilletto. L’arma si inceppa, però, e lei viene immediatamente fermata dai militari accorsi per il frastuono. Arrestata in flagranza, viene portata nel carcere romano di Regina Coeli. Un caso apparentemente semplice: omicidio premeditato.
Invece no, perché Lidia e il capitano Lush erano fidanzati, si presentavano come marito e moglie anche se non lo erano per legge. Nel corso del processo, infatti, emerge la storia di Lidia, sedotta e abbandonata, e anche la frustrazione che ormai cova da anni per la massiccia presenza dell’esercito alleato in Italia. Un paese tutto da ricostruire, che ancora si tiene stretto un reato dai contorni arcaici, che rimane nel codice penale fino al 1981.
La Madonna di Pompei
Il racconto di Lidia ai giudici comincia davanti al quadro della Madonna di Pompei, custodita in un santuario di recente edificazione ma molto venerato. Secondo i fedeli, una preghiera alla madonna garantisce grazie e miracoli e così la devozione popolare porta ad arricchire l’immagine di ex voto.
Anche Lidia Cirillo, anche se è di Torre Annunziata, frequenta il santuario. Religiosissima, anche lei chiede la sua grazia. Ci si reca anche insieme al capitano inglese Sydney Lush: lui è un ufficiale della guardia britannica, quarantaquattenne di bell’aspetto con i capelli biondi lunghi sul collo. Lidia è una ragazza di buona famiglia borghese, capelli neri, fisico un po’ abbondante, un bel sorriso. Ventotto anni e ancora nubile.
Da mesi sono fidanzati e lui è deciso a sposarla. Lei deve capirlo, però, se non possono farlo subito: lui è un ufficiale e per prendere moglie deve ottenere il nulla osta della corona, ma le giura eterno amore davanti alla Madonna di Pompei. Di più, le dona la sua pistola, dicendole che con quella avrebbe dovuto ucciderlo, se mai l’avesse tradita.
È così che, infine, Lidia si convince a consumare il matrimonio e soprattutto a seguire il suo Sydney a Roma, dove nel frattempo è stato trasferito. Improvvisamente, però, Lush diventa più sfuggente. Lidia lo vede sempre meno, si sente trascurata e non sa a che cosa attribuire questo allontanamento. Fino all’amara verità, scoperta in una città grande, ma minuscola quando si tratta di voci e pettegolezzi.
Lush si è invaghito di una bella ragazza romana che si chiama Marisa Santini e che lui porta alle feste al posto di Lidia, presentandola come la sua fidanzata. Un divertimento, in realtà, perché il capitano inglese ha scoperto che a breve dovrà trasferirsi in Egitto. Proprio il paese dove, guarda caso, risiede una certa signora Lush con i suoi quattro figlioli.
Questione d’onore
Per questo Lidia va ad affrontarlo armata della pistola che lui le aveva regalato come menzognero pegno d’amore. A chi la interroga racconta anche cosa accade, pochi secondi prima di premere il grilletto: «Lo avevo perdonato e glielo avevo anche scritto, ma le sue parole mi fecero perdere la calma, ferendomi nel mio orgoglio di donna italiana».
Cosa avrebbe detto, il capitano Lush? «L’Italia è un paese di ladri e prostitute». La storia è troppo incredibile per non finire subito sulle prime pagine, che raccontano della donna italiana tradita dall’ufficiale inglese, che si è preso gioco di lei, ne ha rubato la virtù e pensava di comprare il suo silenzio, pure insultandola.
Questa è anche la linea difensiva di Lidia Cirillo, per il processo che inizia pochi mesi dopo, il 4 aprile, a Roma. L’imputazione: omicidio premeditato, procurato aborto nel maggio 1944 a Torre del Greco e detenzione e porto abusivo di arma.
Siccome manca il legittimo matrimonio non può essere infatti delitto d’onore, che punisce con una pena molto lieve – dai tre ai sette anni – «chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia». Un reato normalmente utilizzato per gli uomini, ma che nel caso Cirillo sarebbe stato perfettamente calzante.
Il tema dell’onore ferito però è l’argomento principale della difesa: con la frase «l’ho fatto per difendere l’onore delle donne italiane» Cirillo si è trasformata nella personificazione dell’Italia che comincia a mal sopportare la presenza dell’esercito alleato nelle sue città.
Il suo è un processo lampo, di appena due udienze. Per la pubblica accusa Lidia «ha agito in stato passionale, ma questo non è tale da diminuirne la colpevolezza». La difesa chiede invece la dichiarazione di completa irresponsabilità.
Infine, arriva la sentenza: condanna a quattro anni e 23 giorni di carcere, 1000 lire di multa e tre anni di ricovero in una casa di cura, tenendo conto delle attenuanti generiche, della provocazione grave e della semi infermità di mente.
Tanto è forte l’ondata popolare, però, che Lidia è diventata un’eroina civile e in carcere riceve centinaia di lettere e moltissime proposte di matrimonio. Tanto che, dopo meno di un anno dalla condanna definitiva, arriva anche la richiesta per lei della grazia del presidente della Repubblica, carica che nel 1947 è ricoperta in via provvisoria da Enrico De Nicola.
A controbilanciare la narrazione tutta in favore di Lidia Cirillo, però, irrompe una voce. Da Alessandria d’Egitto, arriva una lettera rivolta all’assassina e firmata dalla vedova Lush, Mary, che la accusa di calunniare il defunto «volendo farvi passare da eroina per guadagnare il rispetto del vostro onore».
Lettera analoga viene inviata anche al Quirinale, in cui la vedova si dice contraria ad ogni atto di clemenza. Serve un altro anno, per ottenerla. Lidia Cirillo viene graziata dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi il 16 giugno 1948, dopo che ha scontato circa metà della pena.
Una volta uscita dal carcere, i giornalisti le chiedono se vuole sposarsi.
Ma non è solo al matrimonio, che pensa: Lidia ha scritto un diario di trecento pagine, per il quale un editore romano le ha offerto una somma di sette cifre. Si intitola Ho amato, ho ucciso, ed esce a puntate per tutto il 1948 sul rotocalco settimanale Il mio segreto.
Così scopre che in fondo i panni dell’eroina tragica le calzano a pennello. Tanto che, nel 1951, accetta di realizzare un film dal titolo Una donna ha ucciso, regista Vittorio Cottafavi, in cui si raccontano i suoi amori e il suo omicidio e lei compare in un cameo.
La giurisprudenza
Intanto, anche la sensibilità pubblica sta cambiando. Dal 1947, in seguito al trattato di pace di Parigi, le truppe alleate hanno lasciato definitivamente l’Italia.
Anche il parlamento ha iniziato i suoi primi passi per riformare le leggi fasciste e i retaggi arcaici che ancora incrostano il diritto penale, come il delitto d’onore di cui la ribalta mediatica del caso Cirillo è diventata giustificazione. Eppure è una fattispecie che richiama il concetto di onore arcaico ed esclusivamente sessuale, che legittima a lavare nel sangue di uno o di entrambi gli amanti eventuali infedeltà di mogli, sorelle e figlie.
Le parlamentari che dagli anni Cinquanta depositano proposte di legge per abrogarlo lo ribattezzano “norma vergogna”, per la sua legittimazione della violenza in risposta a un tradimento carnale e perché il bene giuridico tutelato non è la vita ma l’onore della famiglia e la morale maschile, in una specie di estensione del diritto di proprietà.
La richiesta di abolire il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, che fa cessare le conseguenze penali dello stupro, viene respinta più e più volte in parlamento.
Intanto, la giurisprudenza è discordante e allarga la portata del reato sempre di più, fino a farvi rientrare i casi più disparati, con un solo elemento in comune: l’omicidio. Con la percezione che, quando c’è di mezzo l’onore, si può lecitamente assumere il ruolo di giustiziere. Fino all’agosto 1981, quando finalmente la legge che cancella l’onore dal codice penale viene approvata.
Quanto a Lidia Cirillo, uscita di galera in un giorno d’estate, il suo nome rimarrà per sempre legato a un omicidio che, seppur non riconosciuto come delitto d’onore, ne è diventato l’emblema. La sua è una piccola storia, che racconta però quanto l’opinione comune possa condizionare l’esito di un processo, e quanto la vendetta sia un sentimento potente.
Oggi, di quella Roma popolata di ufficiali stranieri non rimane quasi più nulla. La Madonna del rosario a Pompei, invece, è ancora lì, attorniata dai suoi ex voto e intarsiata di pietre preziose. Spettatrice di tante promesse d’amore, non tutte mantenute.
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