Gli americani avrebbero voluto trasformare il processo all’ex maresciallo Rodolfo Graziani, gerarca fascista, nella Norimberga italiana. Doveva diventare un simbolo, è stato invece il primo banco di prova della tenuta delle nuove istituzioni repubblicane, in cui tre avvocati antifascisti hanno accettato la difesa del braccio armato della dittatura mussoliniana. A questo processo è dedicato uno degli episodi della seconda stagione di Per questi motivi, il podcast di Giulia Merlo
La mattina di lunedì 11 ottobre 1948, Roma si è riversata davanti al palazzo di giustizia di piazza Cavour. Il palazzo di giustizia è presidiato fin dalle prime ore dell’alba da una eccezionale cintura di sicurezza. È così che comincia, davanti alla Corte d’assise speciale, il processo all’ex maresciallo Rodolfo Graziani, marchese di Neghelli, Vicerè d’Etiopia, ministro della difesa della Repubblica di Salò, gerarca fascista.
Alto un metro e novanta, sovrasta in statura i carabinieri che lo fiancheggiano. Con una folta testa di capelli bianchi, la mascella prominente e i tratti scavati, la stampa lo ribattezza il Leone di Neghelli.
In aula è arrivato vestito in abiti civili, porta la camicia sbottonata sul petto e al taschino sfoggia un fazzoletto di seta rossa. A Roma e in Africa, però, tutti lo ricordano con la divisa scura della milizia fascista. Allora il suo soprannome era macellaio del Fezzàn, in ricordo di una brutale campagna da lui condotta in Libia.
Il suo è l’ultimo dei grandi processi politici del dopoguerra, che gli americani vorrebbero trasformare nella Norimberga italiana. Doveva diventare un simbolo, è stato invece il primo banco di prova della tenuta delle nuove istituzioni repubblicane, in cui tre avvocati antifascisti hanno accettato la difesa del braccio armato della dittatura mussoliniana.
La difesa
Uno di questi si chiama Giorgio Mastino del Rio, impegnato nella resistenza romana e finito nella prigione di via Tasso nel 1944, dove è stato torturato per fargli rivelare notizie sui suoi compagni partigiani.
In quegli stessi giorni, a Salò, Rodolfo Graziani sta organizzando la famigerata Armata Liguria, che fino al giorno della Liberazione ha presidiato la linea Gotica per respingere le truppe degli alleati anglo americani e per combattere i gruppi partigiani. Fino al 25 aprile del 1945. Dopo la Liberazione, l’avvocato Mastino Del Rio viene insignito della medaglia d’argento al valor militare. Graziani, invece, si consegna all’esercito americano e diventa prigioniero di guerra.
Tre anni dopo, l’avvocato Mastino Del Rio è parlamentare della Democrazia Cristiana, il maresciallo Rodolfo Graziani sta per essere processato.
Per la neonata repubblica italiana è un momento nevralgico. Graziani è stato tenuto in vita dagli alleati proprio per poter permettere all’Italia di svolgere un processo. E di processare con lui anche la repubblica sociale. Con un esito ovvio e scontato: la condanna.
Quanto accadrà nell’aula di giustizia non avrà solo il valore della sentenza, ma sarà la prova della tenuta del nuovo stato democratico. Così emerge la grande questione: chi, nell’Italia appena uscita dalla guerra, è disponibile a difendere un gerarca fascista?
Uno è proprio Giorgio Mastino del Rio, a cui si affiancano altri due avvocati considerati tra i migliori d’Italia e anche loro antifascisti: Francesco Carnelutti e Giacomo Primo Augenti.
Una scelta non facile: sanno che saranno oggetto di critica e di attacchi anche sui giornali. All’epoca come oggi, sull’onda emotiva di un processo, è sin troppo facile sovrapporre l’avvocato al suo assistito. Così racconta la decisione Mastino del Rio: “Un giorno del giugno 1945, una donna bussava alla mia porta. Mi chiedeva di difendere il marito, Rodolfo Graziani, precipitato dal vertice del potere nell’abisso della sventura. Non ho esitato ad accettare il mandato considerando che un rifiuto sarebbe stato un atto di codardia”.
Già prima del processo, il clima è infuocato e le fazioni sono nette. Da una parte c’è giovane Italia antifascista, dall’altra i nostalgici del Ventennio e chi aveva combattuto per la repubblica di Salò, che trova in Graziani l’esempio di un soldato che si proclama servitore della patria.
Il processo comincia nella mattina del 14 ottobre del 1948, davanti alla Sezione speciale della corte d’assise, istituita appositamente per processare i crimini di collaborazionismo durante il periodo di occupazione nazista e la Repubblica sociale italiana.
Viene data lettura dei capi d’imputazione contro Graziani: «Avere dopo l’8 settembre 1943 e fino al maggio 1945, in Roma e nei territori dell’Italia del Nord, commesso delitti contro la fedeltà dello Stato, collaborando con il tedesco invasore».
Una enunciazione non tecnica che la difesa intende contestare. Gli avvocati, inoltre, sono convinti che la competenza per il processo spetti al tribunale militare.
Graziani però si dice “soddisfatto del tribunale che mi giudica, esso rappresenta degnamente il popolo italiano al quale io intendo dire tutta la verità”.
E’ così che gli avvocati rinunciano alle eccezioni, tranne una: quella di precisare il capo di imputazione, altrimenti la difesa sarebbe impossibile.
Il primo ad essere ascoltato in aula è proprio lui, Graziani. Per sei udienze risponde in modo affannoso e disordinato, spesso si fa prendere da scatti d’ira. Rinnega ogni ricostruzione sulle sue rappresaglie in Somalia ed Etiopia e le sue parole cozzano in modo costante con quanto raccontato dagli oppositori del regime. Quanto alla Repubblica sociale, critica pesantemente Mussolini e le sue scelte di guerra, nonostante lo abbia seguito nell’esperienza tragica di Salò.
Poi è il momento dei testimoni: solo 8 per l’accusa, a fronte dei 98 testi chiamati dalla difesa dell’ex maresciallo.
La linea difensiva è subito chiara: Graziani non è un fascista fanatico ma un militare. Per lui la patria è tutto e, quando viene chiamato da Mussolini a Salò, accetta per evitare che i nazisti del Terzo Reich dilaghino e distruggano l’Italia.
L’accusa contesta questa ricostruzione: se Graziani, come dice, è un militare, deve sapere che i militari difendono la patria sotto ogni governo e senza fare politica. Allora dopo l’armistizio dell’8 settembre avrebbe dovuto mettersi a disposizione contro i tedeschi e non allearsi con loro.
Il testimoniale prosegue in modo lento e sembra che stiano prevalendo i motivi della difesa, che è riuscita in una mossa abile: portare la discussione su questioni accademiche su quale fosse l’autorità statale riconosciuta, dopo il 1943.
L’accusa, invece, ha portato poche testimonianze a carico e gli avvocati di Graziani hanno approfittato dell’errore.
Tutto cambia, quando al giudice arriva una lettera. Porta la firma del senatore Ferruccio Parri, nome di battaglia Maurizio, capo partigiano e primo presidente del Consiglio dei ministri a capo del governo di unità nazionale, che si dice disponibile ad essere ascoltato sulle singole circostanze da lui conosciute ed elencate.
Così, il 2 novembre 1948, si svolge l’udienza più drammatica e risolutiva del processo. Parri parla a nome di tutti i partigiani d’Italia e con lui entra finalmente in aula la Resistenza. Così il clima quasi disteso della prima parte del dibattimento muta radicalmente. Poi, l’ennesimo colpo di scena.
Il tribunale militare
Forse percependo che l’aria è cambiata, Graziani non è più così baldanzoso. Sente che non è più il momento dei proclami e permette ai suoi avvocati di sollevare l’eccezione di incompetenza della corte, perchè il processo riguarda valutazioni su attività a carattere militare.
Il procuratore generale contesta questa tesi, sostenendo che ai fini delle imputazioni non è importante capire esattamente i dettagli degli scontri.
Il 26 febbraio 1949, arriva una decisione inaspettata: pur dopo quasi settanta udienze, la Corte d’assise si dichiara incompetente. Il processo dovrà ricominciare da zero, un anno dopo, davanti al tribunale militare.
Graziani entra nella nuova aula visibilmente emozionato, questa volta con la divisa addosso. Davanti agli alti ufficiali torna a difendersi e di nuovo contro di lui interviene Ferruccio Parri.
Il processo dura appena due mesi, poi si arriva alle battute finali. “Graziani era semplicemente un soldato e come tale doveva rispondere a due imperativi categorici: l’obbedienza e la disciplina”, dice il procuratore generale.
Secondo i suoi difensori, invece, Graziani agì solo per evitare all’Italia l’invasione tedesca e le sue azioni non erano considerate reato al momento in cui sono state commesse.
Graziani viene riconosciuto colpevole di collaborazione militare con il tedesco e viene condannato a 19 anni di carcere. Assolto, invece, per insufficienza di prove dall’imputazione di aver impiegato l’armata Liguria nella lotta antipartigiana. Il tribunale militare, però, gli condona 13 e 8 mesi di pena, in virtù delle lesioni patite in un attentato subito ad Addis Abeba, degli atti di valore compiuti durante la carriera militare e delle attenuanti generiche.
Così Graziani sconta sei mesi di pena residua dopo la carcerazione preventiva. Infine, viene rimesso in libertà nella notte del 29 agosto 1950.
Il processo alla Storia, la Norimberga italiana, l’Italia in due. Da una parte gli ottimisti, che la considerano comunque di grande importanza giuridica, perché sancisce il principio che la repubblica di Salò non era Italia, che i suoi sostenitori erano nemici della patria e quindi colpevoli di collaborazionismo con i tedeschi.
Dall’altra i pessimisti, soprattutto ex partigiani, che parlano di sentenza infame nei confronti dei morti e dei mutilati di guerra.
Il processo a Graziani ha chiuso il dopoguerra e ha dimostrato come il diritto sia ben misero strumento per giudicare la storia, ma anche di come le fratture nette non esistano, nemmeno quando cade una dittatura.
Il vero risultato della sentenza non è stata la condanna, ma la preziosa ricostruzione delle parole sia dei vincitori che dei vinti.
L’interrogativo però è sempre lo stesso, ed è più etico che giuridico. Possono essere considerate illecite le azioni ignobili che, però, quando vengono commesse, non sono riconosciute come reati? Si possono far ricadere responsabilità collettive su un singolo?
Sono domande a cui in tempo di pace la risposta è semplice. In tempo di guerra invece si propende per lo stato d’eccezione. Nel caso del giudizio al maresciallo Graziani, ha prevalso la via di mezzo, che raramente soddisfa.
L’unica spiegazione possibile di un tale esito la fornisce l’avvocato Mastino del Rio nella sua arringa. “Dal sangue della guerra sono trascorsi cinque anni. E’ troppo tardi per la vendetta, è troppo presto per il giudizio della Storia”.
Eppure, a prescindere dall’esito, il processo è stato prima di tutto una dimostrazione di che cosa distingua uno stato democratico da una dittatura. Il diritto di ogni imputato, ad un processo equo, con tutte le garanzie della difesa, anche se è stato un nemico.
LA PUNTATA
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