La discussione sulle parole di Ignazio La Russa a difesa del figlio ha preso una serie di vie consuete. Si è difeso il padre (Eugenia Roccella), si è attaccata l’idea di La Russa che la cultura dello stupro si debba combattere in famiglia e non nelle istituzioni e nella società (Giorgia Serughetti su questo giornale), si è riflettuto sul piglio avvocatizio del presidente del Senato, che ha «interrogato» il figlio e dichiarato l’irrilevanza penale dei suoi atti e sostituendosi quindi agli inquirenti.

Ruoli e principi etici

Queste reazioni presuppongono la distinzione fra ruoli: il ruolo di padre, quello di presidente del Senato, quello di avvocato e giudice. E presuppongono che in ruoli diversi valgano principi etici diversi. Il presidente del Senato dev’essere imparziale e al di sopra delle parti, come e forse anche di più dei giudici, ma, a differenza di questi ultimi, non considera verità giudiziarie né applica leggi, per quanto vi sia soggetto. E certo il presidente del Senato non può essere avvocato di parte.

Ma il padre? Il padre, si assume, difende sempre il figlio. Ma perché? Il rapporto di parentela deve necessariamente rendere ciechi rispetto a valori morali esterni a quelli incarnati nella famiglia? Ammettiamo che le relazioni di parentela siano regolate da principi morali. I genitori debbono proteggere, garantire certi beni – come l’intimità o forse una parte dell’educazione, e forme varie di cura ed esempio. E debbono farlo non in maniera generale, ma privilegiando i propri figli. Ma questo è tutto? Questi valori sono assoluti e impermeabili? Se un figlio commette errori morali imperdonabili, non ammissibili, i genitori debbono sempre e necessariamente stare dalla sua parte?

Certo, i genitori non possono giudicare con lucidità – e questo è l’errore principale di La Russa. E i privati non possono giudicare su affari di rilevanza penale, per decidere le quali la nostra società ha elaborato procedure pubbliche di giudizio, a garanzia di imparzialità e difesa delle vittime e dei rei. Ma questo non vuol dire che non possano prendere le distanze, non possano dubitare.

Non è detto che un padre debba sempre e necessariamente credere a suo figlio, o che abbia la posizione migliore per stabilirne l’attendibilità. D’altra parte, i figli, dopo una certa età, sono individui autonomi e recano poche tracce degli esseri dipendenti che sono stati, e l’intimità simbiotica dell’infanzia (ammesso che ci sia stata) svanisce.

Una visione arcaica

Quindi, neanche come padre La Russa si salva. Assumendo (cosa incontestabile per quanto mi riguarda) che nel caso di un delitto odioso come lo stupro anche il sospetto deve indurre allarme, le relazioni di parentela non giustificano nessuna titubanza.

Anche un padre può condannare uno stupro, e può farlo anche quando il sospetto cada sul figlio, e dopo la condanna può e deve aspettare la sentenza, con tutte le garanzie per l’imputato. Un padre può condannare il delitto eventuale, solidarizzare con la vittima, sospendere il giudizio sul figlio. È un essere umano ragionevole, oltre a essere un padre.

La genitorialità non acceca. Anche le relazioni familiari, insomma, devono cedere il passo all’imparzialità che serve a proteggere vittime e rei quando si verifichi quella lacerazione del tessuto della società che sono certi delitti. E forse dovremmo abbandonare questa concezione viscerale e arcaica della famiglia.

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